sabato 30 dicembre 2006

Etica / 2

Ma cosa vuole intendere Wittgenstein quando parla di bene in senso assoluto?

Vediamo ora che cosa potremmo eventualmente voler dire con l'espressione "la via assolutamente giusta". Penso sarebbe la via che ciascuno, vedendola, dovrebbe, per necessità logica, percorrere, o vergognarsi di non farlo. E, similmente, il bene assoluto, se è uno stato di cose descrivibile, sarebbe quello che chiunque, indipendentemente dai propri gusti e dalle proprie inclinazioni, dovrebbe necessariamente conseguire, o sentirsi colpevole per non conseguirlo. Voglio dire, inoltre, che un simile stato di cose è una chimera. Nessuna situazione possiede, in quanto tale, quello che mi piacerebbe chiamare il potere coercitivo di un giudice assoluto. Ma allora, tutti noi che, e io tra questi, siamo tentati di usare espressioni come "bene assoluto", "valore assoluto", ecc., che cosa abbiamo in mente, e che cosa cerchiamo di esprimere? (1)
(1) L. Wittgenstein, Sull'etica, in Lezioni e conversazioni, Adelphi 1995 (1965), pp. 11-12.

venerdì 29 dicembre 2006

Etica / 1

In genere usiamo l'idea di bene in due accezioni differenti: in senso relativo (quando, ad esempio, diciamo che una certa persona è un buon pianista, nel senso che è in grado di suonare pezzi di un certo grado di difficoltà) e in senso assoluto (quando affermiamo che una certa persona non si sta comportando bene, e sentiamo che c'è qualcosa di essenzialmente negativo in quel che fa).

Ora, io voglio affermare che, mentre si può mostrare come tutti i giudizi di valore relativo siano pure asserzioni di fatti, nessuna asserzione di fatti può mai essere, o implicare, un giudizio di valore assoluto. Permettetemi di spiegare ciò: supponiamo che uno di voi fosse onnisciente, e conoscesse, quindi, tutti i movimenti di tutti i corpi del mondo, vivi o morti, e conoscesse anche tutti gli stati mentali di tutti gli esseri umani che siano mai vissuti, e supponiamo che quest'uomo abbia scritto tutto ciò che sa in un grosso libro, che conterrebbe quindi l'intera descrizione del mondo: quel che voglio dire è che questo libro non conterrebbe nulla che noi potremmo chiamare un giudizio etico o qualcosa che logicamente implichi un tale giudizio.

[...] Se, per esempio, nel vostro libro universale leggiamo la descrizione di un delitto, compresi i particolari fisici e psicologici, la pura descrizione di questi fatti non conterrà nulla che noi potremo chiamare una proposizione etica. Il delitto sarà esattamente sullo stesso livello di un qualsiasi altro evento, per esempio la caduta di una pietra (1).
(1) L. Wittgenstein, Sull'etica, in Lezioni e conversazioni, Adelphi 1995 (1965), pp. 9-10.

giovedì 28 dicembre 2006

Scoperte scientifiche

Wittgenstein considera come

uno dei più bassi desideri dell'uomo moderno [...] la curiosità superficiale per le ultime scoperte della scienza (1).
Perché il filosofo viennese è così severo nel giudicare questo atteggiamento?

(1) L. Wittgenstein, Sull'etica, in Lezioni e conversazioni, Adelphi 1995 (1965), p. 6.

mercoledì 27 dicembre 2006

Indeterminazione / 6

Un'altra conseguenza delle relazioni di indeterminazione è quella di evitare che un elettrone collassi sul nucleo dell'atomo.
Infatti, se l'elettrone cadesse sul nucleo, la sua posizione sarebbe molto ben determinata, ma allora la sua velocità sarebbe molto indeterminata, e quindi l'elettrone avrebbe una velocità tale da abbandonare l'atomo stesso;

è possibile forzare un elettrone all'interno di uno spazio minore di quello delimitato dalla prima orbita di Bohr, ma ciò richiede energia, e non accade spontaneamente, se l'elettrone ha semplicemente l'energia corrispondente all'orbita di Bohr più vicina al nucleo. Se, comunque, per qualche forza esterna, un elettrone fosse localizzato nel nucleo, allora l'energia cinetica risultante sarebbe così elevata che in breve tempo l'elettrone lascerebbe l'atomo (1).
(1) D. Bohm, Quantum Theory, Dover 1979 (1951), p. 102.

martedì 26 dicembre 2006

Indeterminazione / 5

Quindi, affinché si possa parlare di posizione di un elettrone, è necessario realizzare una misura di posizione. E lo stesso vale per la velocità.

Ma la precisione delle misure della posizione e della velocità di un elettrone è intrinsecamente limitata dalle relazioni di indeterminazione.

Oltre tale precisione, quindi, non ha senso parlare di posizione o di velocità dell'elettrone.

Una conseguenza di ciò è che non ha neanche senso parlare di traiettoria di un elettrone.

Ma poiché la conoscenza della traiettoria permette di prevedere la posizione di un elettrone in qualunque istante futuro (o passato), se non c'è traiettoria non c'è neanche la possibilità di tale previsione deterministica.

Una seconda conseguenza delle relazioni di indeterminazione, quindi, è che la previsione della posizione di un elettrone può essere solo probabilistica.

Tornando all'esempio della misura della posizione dell'elettrone legato all'atomo:

Uno può, comunque, ripetere questa singola osservazione su un grande numero di atomi, ed ottenere, così, una distribuzione di probabilità dell'elettrone nell'atomo (1).
E questa è la massima conoscenza possibile relativa al moto di un elettrone (o più in generale di un oggetto microscopico): sapere con quale probabilità si potrà trovare l'elettrone in una determinata posizione ad un determinato istante.

(1) W. Heisenberg, The Physical Principles of Quantum Theory, Dover 1949 (1930), p. 33.

venerdì 22 dicembre 2006

Indeterminazione / 4

Il principio di indeterminazione, dunque, afferma che non è possibile misurare contemporaneamente, con precisione arbitraria, sia la posizione che la velocità di un elettrone.
Questo principio ha numerose conseguenze importanti.

La prima è che non ha senso parlare di traiettoria per un oggetto microscopico come un elettrone. Se io lancio una palla da tennis, questa in ogni istante ha una posizione ed una velocità ben definita; l'insieme di queste posizioni (ognuna delle quali è associata ad una determinata velocità) è chiamato la "traiettoria" della palla da tennis. Un elettrone non ha una posizione ed una velocità ben definite in ogni istante, e dunque non si può associare ad esso una traiettoria.

Come esempio consideriamo il concetto di orbita di un elettrone:

L'orbita è la sequenza temporale dei punti dello spazio in cui l'elettrone è osservato. Poiché le dimensioni dell'atomo nel suo stato di minima energia sono dell'ordine di 10^-8 cm, per ottenere una misura sufficientemente precisa sarà necessario utilizzare luce di lunghezza d'onda non superiore a 10^-9 cm. Tuttavia, un singolo fotone che abbia una tale lunghezza d'onda è sufficiente a liberare l'elettrone dall'atomo [...]. Quindi è osservabile solo un singolo punto dell'ipotetica orbita (1).
(1) W. Heisenberg, The Physical Principles of Quantum Theory, Dover 1949 (1930), p. 33.

giovedì 21 dicembre 2006

Indeterminazione / 3

Un elettrone può essere descritto come un pacchetto di onde, ma quando interagisce con la radiazione o con altra materia, esso si comporta come una particella.
In questa situazione, quando si misura la posizione o la velocità dell'elettrone, valgono le relazioni di indeterminazioni trovate da Heisenberg



che esprimono l'impossibilità di misurare con precisione arbitraria sia la posizione che la velocità dell'elettrone. Minore è la precisione con cui si misura la posizione dell'elettrone, maggiore sarà l'indeterminazione sulla velocità, e viceversa.
Nelle parole di Heisenberg,

il principio di indeterminazione si riferisce al grado di indeterminazione della conoscenza presente dei valori simultanei di varie quantità che riguardano la teoria; esso non limita, ad esempio, l'esattezza di una misura di posizione o di una misura di velocità. Così, se si suppone che la velocità di un elettrone libero sia conosciuta con esattezza, allora la posizione è completamente sconosciuta. E dunque il principio afferma che ogni successiva osservazione della posizione modificherà la quantità di moto per un fattore sconosciuto e indeterminabile, in modo tale che dopo aver realizzato l'esperimento la nostra conoscenza dell'elettrone sarà limitata dalla relazione di incertezza (1).
(1) W. Heisenberg, The Physical Principles of the Quantum Theory, Dover 1949 (1930), p. 20.

mercoledì 20 dicembre 2006

Indeterminazione / 2


Alla fine del XIX secolo non c'era alcun dubbio che la luce fosse formata da onde, e che gli elettroni fossero particelle.
Nel 1916, tuttavia, Millikan dimostra sperimentalmente che la luce interagisce con la materia sotto forma di quanti di energia chiamati fotoni.
Nel 1927 Davisson e Germer fotografano una figura di interferenza (v. figura) formata da elettroni che, passando attraverso un cristallo, si comportano come onde.
Si scopre, quindi, che sia la radiazione che la materia, la luce e gli elettroni, mostrano comportamenti sia ondulatori che corpuscolari.

L'elettrone può essere visualizzato, allora, come un pacchetto di onde che si propaga.

Per "pacchetto di onde" si intende una perturbazione di tipo ondulatorio la cui ampiezza è significativamente diversa da zero solo in una regione limitata. Questa regione generalmente è in movimento, e cambia sia le sue dimensioni che la sua forma; la perturbazione, cioè, si disperde. La velocità dell'elettrone corrisponde a quella del pacchetto di onde, ma non può essere definita in modo esatto a causa della dispersione dello stesso pacchetto. Questa indeterminazione va considerata una caratteristica essenziale dell'elettrone (1).
(1) W. Heisenberg, The Physical Principles of the Quantum Theory, Dover 1949 (1930), p. 14.

lunedì 18 dicembre 2006

Indeterminazione / 1

La posizione di un oggetto è una nozione che ci appare così intuitivamente chiara che non ha bisogno di ulteriori definizioni. Tuttavia, quando consideriamo la posizione di una particella microscopica, che non percepiamo direttamente con i nostri sensi, il problema di cosa si intenda con "posizione" si pone.

Affinché sia chiaro che cosa si debba intendere con l'espressione "posizione dell'oggetto", per esempio dell'elettrone (rispetto ad un dato sistema di riferimento), occorre fornire determinati esperimenti con l'aiuto dei quali si pensa di misurare la "posizione dell'elettrone"; altrimenti tale espressione non ha senso (1).
(1) W. Heisenberg, Il contenuto intuitivo della teoria quantistica, in L. De Broglie, E. Schrödinger e W. Heisenberg, Onde e particelle in armonia, Jaca Book 1991, p. 150.

domenica 17 dicembre 2006

Due modi di pensare / 5

Noi non sappiamo a che cosa porterà il dominio della tecnica atomica che si sta estendendo in maniera sempre puù inquietante. Il senso del mondo della tecnica si cela. Se però teniamo sempre ed espressamente conto che dappertutto nel mondo della tecnica ci viene incontro un senso nascosto, allora subito ci ritroviamo nell'ambito di ciò che a noi si cela,e si cela proprio mentre a noi perviene. Ciò che in questo modo si mostra e allo stesso tempo si ritrae è il tratto fondamentale di ciò che chiamiamo il mistero. Il modo in cui ci teniamo aperti al senso della tecnica lo chiamiamo: l'apertura al mistero.

L'abbandono di fronte alle cose e l'apertura al mistero si appartengono l'uno all'altra. Essi ci offrono la possibilità di soggiornare nel mondo in un modo completamente diverso [...].

M. Heidegger, L'abbandono, Il melangolo 1989 (1959), pp. 38-39.

sabato 16 dicembre 2006

Due modi di pensare / 4

Fra pensiero calcolante e pensiero meditante, Heidegger vuole evitare di seguire una "unica rappresentazione", e cerca una strada che eviti sia il rifiuto del primo, che la perdita del secondo:

Possiamo fare uso dei prodotti della tecnica, conformarci al loro modo d'impiego, ma possiamo allo stesso tempo abbandonarli a loro stessi, considerarli qualcosa che non ci tocca intimamanete e autenticamente. Possiamo dir di sì all'uso inevitabile dei prodotti della tecnica e nello stesso tempo possiamo dire loro di no, impedire che prendano il sopravvento su noi, che deformino, confondano, devastino il nostro essere.

Ma se diciamo allo stesso tempo sì e no ai prodotti della tecnica, il nostro rapporto al mondo della tecnica non diventerà forse ambiguo e incerto? Nient'affatto: il nostro rapporto al mondo della tecnica diventerà invece semplice e sicuro. Si tratterà, infatti di lascar entrare nel nostro mondo di tutti i giorni i prodotti della tecnica e allo stesso tempo di lasciarli fuori, di abbandonarli a se stessi come qualcosa che non è nulla di assoluto, ma che dipende esso stesso da qualcosa di più alto. Vorrei chiamare questo contegno che dice al tempo stesso sì e no al mondo della tecnica con un'antica parola: l'abbandono rispetto alle cose (1).
M. Heidegger, L'abbandono, Il melangolo 1989 (1959), p. 38.

venerdì 15 dicembre 2006

Due modi di pensare / 3

Per Heidegger c'è il pensiero calcolante, connesso alla tecnica, e il pensiero meditante, che si chiede, fra l'altro, sull'origine e sul senso della tecnica stessa.
Qual è, dunque, il pericolo dell'epoca attuale?

la rivoluzione della tecnica che ci sta travolgendo nell'era atomica potrebbe riuscire ad avvincere, a stregare, a incantare, ad accecare l'uomo, così che un giorno il pensiero calcolante sarebbe l'unico ad avere ancora valore, ad essere effettivamente esercitato.

Quale pericolo si starebbe allora avvicinando? Si troverebbero accoppiati l'acume intellettuale più efficace e produttivo, che è proprio dell'invenzione e della pianificazione calcolante, e la completa indifferenza verso il pensiero, la totale assenza di pensiero. E allora? Allora l'uomo avrebbe rinnegato, avrebbe gettato via il suo carattere più proprio: la sua essenza pensante (1).
(1) M. Heidegger, L'abbandono, Il melangolo 1989 (1959), pp. 39-40.

giovedì 14 dicembre 2006

Due modi di pensare / 2

Nel mondo di oggi la tecnica ha un ruolo sempre più influente e pervasivo. Tuttavia secondo Heidegger il pericolo non sta nella tecnica in sé:

Ciò che è veramente inquietante non è che il mondo si trasformi in un completo dominio della tecnica. Di gran lunga più inquietante è che l'uomo non è affatto preparato a questo radicale mutamento del mondo. Di gran lunga più inquietante è che non siamo ancora capaci di raggiungere, attraverso un pensiero meditante, un confronto adeguato con ciò che sta realmente emergendo nella nostra epoca.

Il pensiero meditante richiede da noi che non restiamo attaccati in maniera unilaterale ad un'unica rappresentazione, che non corriamo sempre più oltre su un'unico binario, nell'unica direzione in cui ci costringe una rappresentazione. Il pensiero meditante richiede da noi che ci lasciamo ricondurre a ciò che in sé, a prima vista appare inconciliabile (1).

(1) M. Heidegger, L'abbandono, Il melangolo 1989 (1959), pp. 36-37.

mercoledì 13 dicembre 2006

Due modi di pensare / 1

Quando facciamo dei progetti, compiamo delle ricerche o intraprendiamo delle attività, non possiamo non fare i conti con determinate circostanze. Le mettiamo sempre in conto, e in un conto che è costituito dalle nostre intenzioni commisurate a determinati scopi. Contiamo infatti già in precedenza su determinati risultati. Questo "contare" caratterizza ogni pensiero che è all'opera nei progetti e nelle ricerche scientifiche. Un tale pensiero è sempre un calcolare, anche quando non compie operazioni con i numeri, anche quando non fa uso delle macchine calcolatrici e dei grandi calcolatori elettronici. Il pensiero che fa i conti, che tiene in conto, che mette in conto è un pensiero che calcola.

[...] Il pensiero calcolante non è un pensiero meditante, non è un pensiero che pensa quel senso che domina su tutto ciò che è.
Ci sono pertanto due modi di pensare, entrambi necessari e giustificati, anche se in maniere diverse: il pensiero calcolante e il pensiero meditante.

M. Heidegger, L'abbandono, Il melangolo 1989 (1959), p. 30.

martedì 12 dicembre 2006

Percezione del colore / 4

A proposito della percezione del colore, Humberto Maturana scrive:

non potevamo dar ragione delle molteplici esperienze cromatiche dell’osservatore definendo una corrispondenza del mondo colorato visibile con l’attività del sistema nervoso [...].
Egli comprende che mantenere l'ipotesi di una corrispondenza con il mondo esterno rappresentava un approccio inadeguato. E così si chiede:
se, invece di tentare di correlare l’attività nella retina con gli stimoli fisici esterni all’organismo, avessimo fatto diversamente, ed avessimo cercato di correlare l’attività della retina con l’esperienza del colore del soggetto?
In altre parole, il nuovo approccio ci richiedeva di trattare seriamente l’attività del sistema nervoso come determinata dal sistema nervoso stesso, e non dal mondo esterno; così il mondo esterno doveva avere soltanto un ruolo di propulsore dell’inizio dell’attività determinata dall’interno del sistema nervoso. [...] la percezione non doveva essere vista come la comprensione di una realtà esterna, ma piuttosto come la specificazione di questa, perché non era possibile alcuna distinzione fra percezione ed allucinazione nell’operare del sistema nervoso come rete chiusa (1).
(1) H.R. Maturana, Introduzione a H.R. Maturana e F.J. Varela, Autopoiesi e cognizione, Marsilio 1985 (1980), pp. 27, 28.

lunedì 11 dicembre 2006

Percezione del colore / 3

Si potrebbe concludere, allora, che la percezione del colore dipende dal contesto in cui il colore stesso viene percepito.
Tuttavia, precisa Wittgenstein:

Non è la stessa cosa il dire: l'impressione del bianco o del grigio si produce in certe determinate condizioni (causali) e il dire: è un'impressione in un determinato contesto di colori e forme (1).
Nel primo caso si ha una descrizione oggettiva fondata su rapporti di causa ed effetto: il contesto determina la percezione.
Nel secondo caso c'è una concomitanza di contesto e di percezione: la descrizione non è oggettiva, ma è essa stessa
all'interno di un sistema di relazioni tra i concetti, le definizioni e le regole di un "giuoco linguistico" (2).
(1) L. Wittgenstein, Osservazioni sui colori, Einaudi 1982 (1977), p. 15.
(2) A. Gargani, Introduzione a L. Wittgenstein, Osservazioni sui colori, Einaudi 1982 (1977), p. XIV.

domenica 10 dicembre 2006

Percezione del colore / 2

La teoria della percezione del colore di Young e Helmhotz, tuttavia, non spiega tutto. In particolare non riesce a dare ragione di quel fenomeno che è chiamato costanza del colore:

Prendiamo un foglio di carta bianca e osserviamolo in presenza di luce bianca molto fioca, così fioca che la luce riflessa ai nostri occhi sia minore di quella proveniente da un altro foglio, posto accanto al primo, questa volta grigio, ma bene illuminato. Credete che, ignorando a priori quale sia il foglio bianco e quale quello grigio, ci sbaglieremmo nel giudicarli? Molto improbabile. Il bianco ci apparirà sempre bianco e il grigio sempre grigio.
[...] Il colore percepito può arrivare ad essere addirittura indipendente dalla natura delle radiazioni che ci giungono (1).
Non c'è corrispondenza, quindi, fra la lunghezza d'onda della radiazione che colpisce la retina e il colore percepito.
E allora, da dove ha origine il colore?

(1) A. Frova, Luce colore visione, Rizzoli 2000, pp. 163, 167.

sabato 9 dicembre 2006

Percezione del colore / 1

Da dove ha origine il colore?

Sulla superficie della retina si trovano fotoricettori di due tipi: i coni e i bastoncelli.
I coni operano quando c'è abbastanza luce, e si dividono, a loro volta in tre tipi, ognuno dei quali è sensibile ad un colore primario (blu, giallo e rosso). I bastoncelli, invece, entrano in gioco quando c'è poca luce, nella visione notturna.

Secondo la teoria della visione di Young e Helmhotz, la percezione del colore è connessa al rapporto fra le intensità di stimolazione dei tre tipi diversi di coni. Ad esempio una lunghezza d'onda di 514.5 nm stimola il blu con un segnale pari a 7, il giallo con un segnale pari a 74 ed il rosso con un segnale pari a 39. La terna 7-74-39 viene percepita dal nostro cervello come un colore verde.
Ciò che conta per il colore, quindi, è il rapporto fra i segnali associati ai tre diversi tipi di coni.


Quando la luce è poco intensa, tuttavia, non si attivano i coni, ma i bastoncelli; e qualunque sia la lunghezza d'onda che arriva sulla retina la sensazione di colore che ne risulta è sempre la stessa:

una tinta indefinibile che sta tra il grigio scuro, il blu e il verde, tanto più cupa quanto maggiore è l'oscurità. E' la tinta livida della notte, usata dai pittori per evocare sensazioni di angoscia e di morte.
[...] i bastoncelli ci dicono solo se c'è luce e quanta ce n'è, ma ne ignorano la lunghezza d'onda, che è come dire il nome e il cognome. Proprio come in una pellicola fotografica in bianco e nero, che traduce tutti i colori e la loro luminosità in un'infinita gradazione di grigi. Questo comportamento dei bastoncelli esclude ogni dubbio residuo che la luce possa essere di per sé colorata. E conferma che il colore è solo una sensazione psicofisiologica, che proviamo quando particolari recettori - i coni - vengono stimolati (1).
(1) A. Frova, Luce colore visione, Rizzoli 2000, p. 144.

venerdì 8 dicembre 2006

Essere

Scrive Heidegger:

Quindi bisogna pensare: - "è presente infatti l'essere-presente" (1).
Dal punto di vista della scienza questa affermazione è tautologica e senza significato, dal punto di vista della filosofia essa rappresenta l'origine di un pensiero fenomenologico.

(1) M. Heidegger, Seminari, Adelphi 1992 (1977), p. 176.

giovedì 7 dicembre 2006

Rigore

A differenza di quanto accade nelle scienze, il rigore del pensiero non consiste semplicemente nell'esattezza artificiale, cioè tecnico-teorica, dei concetti. Esso riposa nel fatto che il dire rimane puramente nell'elemento della verità dell'essere, e lascia dominare ciò che, nelle sue molteplici dimensioni, è il semplice.

M. Heidegger, Lettera sull'umanesimo, Adelphi 1997 (1976), p. 34.

mercoledì 6 dicembre 2006

Modus ponens

Il rigore scientifico si basa sulla possibilità di realizzare dimostrazioni di tipo matematico. Le dimostrazioni matematiche, a loro volta, in linea di principio possono essere ricondotte a dimostrazioni della logica formale. Un sistema formale ha bisogno di regole di deduzione.

Una delle regole di deduzione più diffuse è il cosiddetto modus ponens: da A, e da A implica B, segue direttamente B. In simboli:

A
A->B
-------
B

Possiamo, tuttavia, chiederci: su cosa si basa il modus ponens?

[Il modus ponens] da un punto di vista intuitivo sembra essere una regola di deduzione ragionevole. Questa regola corrisponde ad uno dei modi comuni di sviluppare un argomento nel linguaggio di tutti i giorni (1).
E ancora si può aggiungere:
Per quanto i matematici aspirino a tener completamente fuori dai propri sistemi l'intuizione, che non viene considerata affidabile, le intuizioni di base penetrano ovunque; la stessa logica è basata sull'intuizione [...] (2).
(1) A.G. Hamilton, Logic for Mathematicians, Cambridge University Press 1989, p. 29.
(2) R. Trudeau, La rivoluzione non euclidea, Bollati Boringhieri 1991 (1987), p. 24.

martedì 5 dicembre 2006

Psiche e materia

Scrive Giuseppe Tratteur, che negli anni Trenta ancora non c'era la piena convinzione della fisicità del mondo mentale, e

la mente, la psiche erano concepite così come erano esperite: extracorporee, immateriali. Oggi iniziamo a concepirle in quanto vengono osservate dall'esterno e descritte in terza persona, e benché i progressi siano lentissimi e quindi aperti, tuttavia sono da escludersi interventi o interazioni della psiche con la materia. Non potendo eliminare lo psichico - ciò che peraltro alcuni autori, come Dennett, propongono -, dato che ognuno di noi sa incorreggibilmente di esserci, non si vede altra via per conciliare i due modi di conoscenza: in prima persona o soggettiva e in terza persona, scientifica o oggettiva (1).
Il problema è bene espresso: come conciliare l'ambito soggettivo con quello oggettivo?
Tuttavia, se si riduce la prima persona alla terza persona, non si perde proprio ciò che è maggiormente peculiare e caratteristico dell'ambito soggettivo?
E possiamo concludere così rapidamente che "sono da escludersi interventi o interazioni della psiche con la materia" se pensiamo a tutta la critica epistemologica al realismo che ha attraversato il XX secolo?

(1) G. Tratteur, Nota editoriale a W. Pauli, Psiche e natura, Adelphi 2006, p. 19.

lunedì 4 dicembre 2006

Archetipi

La teoria secondo cui la materia è costituita di particelle, ad esempio, è basata su un'immagine archetipica. Anche l'energia è un'immagine archetipica, un concetto intuitivo a sfondo archetipico. Non è possibile studiare la materia senza fare ipotesi del genere, cioè che esiste qualcosa come l'energia, qualcosa come le particelle, qualcosa come la materia stessa. [...]

Esiste dunque, tanto nelle scienze naturali quanto nei rapporti interpersonali, un problema di proiezione. Anche le forme più rigorose e avanzate della scienza attuale sono basate su proiezioni. Il progresso scientifico è la sostituzione di una proiezione primitiva con una più adeguata. [...]

Il famoso fisico Wolfgang Pauli era solito dimostrare fino a che punto la fisica moderna sia radicata nelle idee archetipiche. L'idea di causalità, così come l'ha formulata Descartes, ha certo contribuito a far progredire enormemente le ricerche sulla luce, sui fenomeni biologici, e in molti altri campi; ma quella stessa idea che fa avanzare il sapere può diventare la sua prigione.

M.-L. Von Franz, Alchimia , Boringhieri 1984 (1980), pp. 23, 26.

domenica 3 dicembre 2006

Energia

C'è un fatto, o se desiderate, una legge, che governa tutti i fenomeni naturali conosciuti. Non c'è nessuna eccezione a questa legge - almeno per quanto ne sappiamo. La legge è chiamata conservazione dell'energia. Secondo questa legge c'è una certa quantità, che chiamiamo energia, che non cambia durante i vari mutamenti che attraversano il mondo naturale. Questo è un concetto estremamente astratto, poiché è un principio matematico; esso afferma che c'è una quantità numerica che non cambia quando qualcosa accade. Non è la descrizione di un meccanismo, o di qualcosa di concreto; è solo uno strano fatto, secondo il quale noi possiamo calcolare qualche numero, e quando finiamo di osservare la natura che fa i suoi trucchi e calcoliamo il numero di nuovo, il numero è lo stesso. [...]
E' importante rendersi conto che nell'ambito della fisica attuale, non abbiamo nessuna idea di cosa l'energia sia. Non abbiamo un modello formato da piccoli pacchetti che trasportano una quantità di energia ben definita. Non funzionano così le cose. Invece ci sono formule per calcolare alcune quantità numeriche, e quando sommiamo tutte queste quantità insieme il risultato è "28" - sempre lo stesso numero. E' qualcosa di astratto, che non ci rivela il meccanismo o le ragioni per cui le varie formule funzionano.

R.P. Feynman, R.B. Leighton and M. Sands, The Feynman's Lectures on Physics, Addison-Wesley 1977 (1963), pp. 4-1, 4-2.

sabato 2 dicembre 2006

Scienza e oggettività

Seguendo Kant, si può considerare "oggettiva" una proposizione che può essere controllata intersoggettivamente; mentre il termine "soggettivo" si applica ai nostri sentimenti di convinzione.

Popper sostiene che le proposizioni scientifiche devono essere oggettive; non nel senso di essere completamente giustificabili e verificabili, ma nel senso, appunto, che possono essere sottoposte a controlli. Al contrario

un'esperienza soggettiva, o un sentimento di convinzione non può mai giusticare un'asserzione scientifica, e che all'interno della scienza tale sentimento non può avere parte alcuna, se non come oggetto di ricerca empirica (psicologica). Per quanto intenso sia, un sentimento di convinzione non può mai giustificare un'asserzione. Di conseguenza posso essere profondamente convinto della verità di un'asserzione, posso essere sicuro dell'evidenza delle mie percezioni; posso addirittura essere sommerso dall'intensità della mia esperienza: qualsiasi dubbio può sembrarmi assurdo. Ma può un'asserzione qualsiasi essere giustificata dal fatto che Karl R. Popper è profondamente convinto della sua verità? La risposta è "no"; e qualsiasi altra risposta sarebbe incompatibile con l'idea di oggettività scientifica. Neanche il fatto, per me così saldamente acquisito, che sto provando questo sentimento di convinzione, può comparire nel campo della scienza oggettiva se non sotto forma di ipotesi psicologia la quale, naturalmente, richiede un controllo intersoggettivo (1).
Ma come può lo stesso Karl R. Popper giustificare la propria convinzione rispetto a ciò che ha scritto? Come possiamo riconoscere un controllo intersoggettivo, se non comunque accettando il fatto di essere convinti di ciò che leggiamo o ascoltiamo da altri?
Alla base di ogni controllo intersoggettivo sembra esserci sempre un'accettazione personale a priori.
Se la scienza è un'attività umana, è possibile eliminare completamente da essa l'aspetto soggettivo?

(1) K.R. Popper, Logica della scoperta scientifica, Einaudi 1970 (1934), p. 29.

venerdì 1 dicembre 2006

Scienza e realtà

La scienza ci dice qualcosa sulla realtà del mondo?
Il problema è complesso, ed uno dei nodi problematici è efficacemente espresso da Einstein in una lettera a Schrödinger del 1935:

la vera difficoltà sta nel fatto che la fisica è un tipo di metafisica; la fisica descrive "la realtà". Ma noi non sappiamo cosa sia "la realtà", se non attraverso la descrizione fisica che ne diamo di essa (1).
(1) Citato in V. Allori, M. Dorato, F. Laudisa e N. Zanghì, La natura delle cose, Carocci 2005, p. 13.