lunedì 26 febbraio 2007

Seguire le regole / 5

Potrebbe sembrare, allora, che ogni regola possa essere interpretata in modo arbitrario, e che quindi, in definitiva, non abbia neanche senso parlare di regole.
Ma, in realtà, quando seguiamo una regola, lo facciamo in base alle abitudini che abbiamo già acquisito, in base all'addestramento che in passato abbiamo ricevuto:

Quando seguo la regola non scelgo.
Seguo la regola ciecamente (1).
Si potrebbe dire, dunque, che non c'è spazio per l'arbitrio individuale, ma nello stesso tempo non si può pensare che esista una interpretazione vera, genuina della regola già da sempre dotata del suo senso. Piuttosto è come se alle regole mancasse un fondamento logico, razionale, e il loro senso derivasse dall'esterno:
"Ma come può una regola insegnarmi che cosa devo fare a questo punto? Qualunque cosa io faccia, può sempre essere resa compatibile con la regola mediante una qualche interpretazione". - No, non si dovrebbe dire così. Si dovrebbe invece dire: Ogni interpretazione è sospesa nell'aria insieme con l'interpretato; quella non può servire da sostegno a questo. Le interpretazioni, da sole, non determinano il significato (2).
(1) L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Einaudi 1983 (1953), § 219, p. 114.
(2) L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Einaudi 1983 (1953), § 198, p. 107.

giovedì 22 febbraio 2007

Seguire le regole / 4

Seguire una regola, quindi, non è qualcosa che può essere comunicato solamente attraverso descrizioni. Poiché le descrizioni vanno interpretate, ed anche le interpretazioni vanno, a loro volta, interpretate.
Per questo, seguire una regola è una prassi, e per apprendere come seguire una regola è necessario un addestramento.

Nel corso di questo addestramento gli mostrerò lunghezze eguali, figure eguali, colori eguali: e lui dovrà a sua volta individuarli e riprodurli, e così via. Lo avvierò, per esempio, a proseguire 'in modo eguale' un motivo ornamentale, quando riceve un certo ordine. - E anche a continuare progressioni; per esempio a proseguire . .. ..., così: .... ..... ......
Gli faccio vedere come si fa, e lui fa come faccio io; e influisco su di lui con espressioni di consenso, di rifiuto, di aspettazione, di incoraggiamento. Lo lascio fare, oppure lo trattengo; e così via.
Immagina di essere testimone di un addestramento del genere. Nessuna parola sarebbe definita mediante se stessa, non si cadrebbe in nessun circolo logico.
Nel corso di questo addestramento verrebbero spiegate anche le espressioni "e così via" e "e così via all'infinito". A questo scopo potrebbe servire, tra le altre cose, un gesto. Il gesto che significa "continua così!" e "così via" ha una funzione paragonabile a quella dell'indicare un oggetto o un luogo (1).
Da questo punto di vista, anche l'apprendimento di contenuti teorici è una forma di apprendistato.
Per questo c'è ancora bisogno di maestri.

(1) L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Einaudi 1983 (1953), § 208, pp. 110-111.

mercoledì 21 febbraio 2007

Seguire le regole / 3

Di fronte ad una regola, generalmente abbiamo la convinzione che esista una giusta interpretazione che ci spiegherà come seguire la regola.
Ma esiste una giusta interpretazione? E soprattutto: in cosa consiste?

Quando ci troviamo davanti un cartello con una freccia rivolta in avanti pensiamo che ci indichi di proseguire. Supponiamo, però, che arrivi una persona che quando vede il cartello torna indietro, poiché egli è convinto che quel cartello indichi esattamente quel che sta facendo. Allora noi gli spieghiamo che il significato del cartello, in realtà, è quello di andare avanti. Ma l'altro sostiene che egli sta esattamente andando avanti; egli intende in questo modo l'andare avanti.
Potremmo cercare di spiegarci ulteriormente, ma rischieremmo ancora di non capirci, finché non decidessimo di mostrare con un azione al nostro interlocutore cosa significa per noi seguire le indicazioni del cartello.

Oppure pensiamo di chiedere ad un matematico di completare la seguente successione: 1, 2, 3, 4, ...
Il matematico, inaspettatamente, la completa con i numeri 5.48, 8.4, 14.2, ...
Noi non siamo d'accordo, sostenendo che la corretta continuazione è ovviamente 5, 6, 7, ..., ma il matematico afferma che il suo completamento è dato da una successione che deriva dal più semplice polinomio da cui si può derivare anche la prima parte della successione.
In breve, se P(x)=x4/50-x3/5+x27/10+12/25, allora si ha che P(1)=1, P(2)=2, P(3)=3, P(4)=4, P(5)=5.48, P(6)=8.4, P(7)=14.2, ...

Rimanendo nell'ambito dei significati non riusciamo a evidenziare qual'è la giusta interpretazione.

Il nostro paradosso era questo: una regola non può determinare alcun modo d'agire, poiché qualsiasi modo d'agire può essere messo d'accordo con la regola. La risposta è stata: Se può essere messo d'accordo con la regola potrà anche essere messo in contraddizione con essa. Qui non esistono, pertanto, né concordanza né contraddizione (1).
Ma cosa si è voluto dimostrare con questi discorsi? Che ogni regola può essere interpretata in modo arbitrario?
L'obiettivo, piuttosto, è quello di mostrare che c'è una distanza incolmabile fra interpretazione di una regola e modalità di azione.
Se, allora, siamo convinti che una regola deve essere seguita in un ben determinato modo, da dove deriva quel modo d'agire? Sicuramente non da un'interpretazione, ma da un addestramento.

(1) L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Einaudi 1983 (1953), § 201, p. 108.

lunedì 19 febbraio 2007

Seguire le regole / 2

Che relazione c'è fra l'espressione di una regola e seguire la regola stessa?

Supponiamo di essere in un paese straniero e di incontrare il seguente simbolo sconosciuto: x&2. Ci informiamo presso un abitante del luogo, ma qualunque spiegazione ci sembra incomprensibile.
Allora l'abitante del luogo scrive una serie di uguaglianze: 1&2=2, 2&2=4, 3&2=6, 4&2=8, 5&2=10,... e a noi sembra di aver capito: "x&2" significa moltiplicare x per 2.
Tuttavia che certezza abbiamo di aver compreso la regola associata al simbolo? La regola riguarda un'infinità di casi, mentre noi ne possiamo controllare solo un numero finito.

Dunque, in base a cosa impariamo a seguire una regola? Ogni spiegazione deve essere interpretata e ci conduce sempre ad una ulteriore interpretazione. Ogni insieme di esempi è insufficiente poiché è necessariamente finito, mentre la regola riguarda un numero infinito di casi.
Probabilmente, allora, impariamo a seguire una regola perché siamo addestrati a farlo; in questo senso "'seguire la regola' è una prassi. E credere di seguire la regola non è seguire la regola".

Lasciami chiedere: Che cosa ha da spartire l'espressione della regola - diciamo un segnale stradale - con le mie azioni? Che tipo di connessione sussiste fra le due cose? - Ebbene, forse questa: sono stato addestrato a reagire in un determinato modo a questo segno, ed ora reagisco così.
Ma in questo modo hai solo indicato un nesso causale, hai solo spiegato come mai ora ci regoliamo secondo le indicazioni di un segnale stradale; non in che consista, propriamente, questo attenersi ad un segnale. No; ho anche messo in evidenza che uno si regola secondo le indicazioni di un segnale stradale solo in quanto esiste un uso stabile, un'abitudine" (1).
(1) L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Einaudi 1983 (1953), § 198, p. 107.

domenica 18 febbraio 2007

Seguire le regole / 1

Cosa vuol dire seguire una regola?
Supponiamo di trovarci in un paese straniero, e di incontrare un cartello stradale con una freccia rivolta in avanti. Come interpretiamo questo cartello? Saremmo portati a seguire la punta della freccia, ma ci viene il dubbio che quel cartello vada interpretato in modo diverso.
Chiediamo, allora, ad un abitante del luogo che passa lì vicino come deve essere interpretato il cartello, ed egli ci spiega che bisogna andare dritti. Tranquillizzati dalla spiegazione ci mettiamo in moto seguendo la punta della freccia, quando la persona che ci ha appena dato le spiegazioni inizia a gridare facendoci capire che abbiamo sbagliato, che non si può andare in quella direzione.

Avevamo chiesto l'interpretazione corretta del cartello, ma l'avevamo compresa? Forse avevamo bisogno anche dell'interpretazione dell'interpretazione: cosa voleva dire dritto in quel paese?

Di cosa c'è bisogno per seguire correttamente una regola ? Sembra che non basti un'interpretazione, e neanche l'interpretazione dell'interpretazione, poiché si potrebbe andare avanti all'infinito.

Una regola sta lì, come un indicatore stradale. - Non lascia àdito ad alcun dubbio circa la strada che devo prendere? Mi dice in quale direzione devo procedere quando l'ho attraversato? Se devo proseguire per la strada, o predere per il viottolo, o andare attraverso i campi? Ma dove sta scritto in quale senso devo seguire quel segnale? Se devo andare nella direzione indicata dal dito o non piuttosto (p. es.) nella direzione opposta? (1)
(1) L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Einaudi 1983 (1953), § 85, p. 56.

giovedì 15 febbraio 2007

Elogio della ragione / 6

Le impressioni che abbiamo del mondo sono corrette? Esse ci permettono di conoscere una corrispondente verità sottostante, oppure sono erronee e vanno modificate poiché descrivono una realtà distorta dalla stessa osservazione?

Ecco un argomentazione a favore della prima posizione, che può essere individuata come realista:
- non possiamo sviluppare una qualsiasi critica se non a partire da una determinata concezione del mondo;
- nel momento in cui abbiamo una qualsiasi opinione sul rapporto fra realtà e soggetto conoscente, tale opinione non può non essere accettata come certa;
- anche l'idea di non avere un'opinione certa è un'opinione certa;
- anche se pensiamo che le impressioni che abbiamo del mondo non siano corrette, comunque consideriamo quest'ultima è un'impressione corretta.

Una volta abbandonata la condizione puramente animale e riflettuto sulle nostre impressioni, abbiamo di fronte due possibilità. Possiamo concludere che sono corrette, o per lo meno degne di essere conservate, oppure possiamo concludere che sono sotto alcuni aspetti erronee e devono essere modificate. Ma in entrambi i casi ciò potrà essere fatto solo a partire da una nuova concezione del mondo in cui siamo situati. In quanto inintelligibile, la scelta di riflettere sulla nostra precedente concezione del mondo da un punto di vista che non implichi una concezione del mondo ci è preclusa. La cornice esterna di qualunque modo di vedere noi stessi, per quanto sofisticato e autoconsapevole, deve consistere di pensieri non soggettivi, dati per certi. Non c'è altro a disposizione, se non una vuota insensatezza: e questa è sempre a disposizione (1).
A questo punto Nagel sostiene che nel momento in cui scopriamo un ordine nei fenomeni, l'idea che questo ordine "sia imposto dalle condizioni della nostra esperienza, o addirittura da un accordo, è del tutto implausibile": l'ordine inferito dalle nostre osservazioni è un "ordine reale".

Tuttavia, il fatto che ci sia sempre qualcosa di certo, non significa che tutte le impressioni che abbiamo del mondo siano corrette. Inoltre, perché non è plausibile pensare che l'osservazione contribuisca in qualche modo alla definizione di ciò che è osservato?

(1) Nagel T., L'ultima parola, Feltrinelli 1999 (1997), pp. 94-95.

mercoledì 14 febbraio 2007

Elogio della ragione / 5

Cosa vuol dire comprendere, intendere un significato?
Ad esempio, siamo in grado di descrivere cosa accade in noi quando comprendiamo il pensiero “aggiungi due”?
Potremmo descrivere tutte le azioni che associamo a questa comprensione: se abbiamo davanti delle arance prendiamo altre due arance, se stiamo facendo dei calcoli aggiungiamo due unità al risultato che abbiamo appena ottenuto, ecc.
Tuttavia l’elenco delle azioni che si possono descrivere è finito, mentre le diverse azioni che si possono associare alla comprensione di “aggiungi due” sono potenzialmente infinite. Dunque questa spiegazione è insufficiente.

In modo alternativo potremmo spiegare l’espressione “aggiungi due” in termini di espressioni più semplici: “aggiungi due” vuol dire “aggiungi uno” ripetuto due volte. Tuttavia non risolveremmo il problema ma solamente lo sposteremmo, perché ora dovremmo chiarire cosa significa comprendere le espressioni più semplici che abbiamo utilizzato per spiegare quella più complicata.

Sembra, dunque, che non sia possibile ridurre il fenomeno della comprensione ad una descrizione naturalistica, ad una descrizione di azioni o di stati psicologici. La comprensione dei significati, quindi, ha in sé qualcosa di irriducibile e di indubitabile, che possiamo chiamare intenzionalità.

Proprio come non posso dubitare della mia esistenza, non posso dubitare che qualcuna delle mie parole abbia un significato, perché per poter dubitare di questo le parole che uso a tal fine devono avere un significato. […]
Alcuni significati complessi possono essere analizzati in termini di significati più semplici, ma non esiste alcuna spiegazione non circolare, in termini naturalistici – di comportamento, di disposizione, psicologici o fisiologici – dell’intendere in generale (1).
L’intenzionalità, quindi, rappresenta il nucleo centrale del processo del comprendere; essa appare come un’esperienza propria del soggetto individuale e non può essere ricondotta ad una descrizione oggettiva.

(1) Nagel T., L'ultima parola, Feltrinelli 1999 (1997), pp. 48-49.

lunedì 12 febbraio 2007

Elogio della ragione / 4

Si possono negare le affermazioni che riguardano la logica di base?
Consideriamo, ad esempio, la contrapposizione: se A implica B, allora non-B implica non-A. Cioè, per fissare le idee, se l'essere un quadrato implica di essere un quadrilatero, allora il non essere un quadrilatero implica di non essere un quadrato.

Se mettiamo in dubbio la validità di una contrapposizione, di fatto mettiamo in dubbio la nostra capacità di dedurre una conclusione. E quindi implicitamente stiamo mettendo in dubbio la nostra stessa capacità di mettere in dubbio la contrapposizione.

Non c'è spazio nello scetticismo sulla logica di base, perché non c'è una posizione da cui poterlo esprimere o pensare senza cadere in contraddizione nel momento stesso in cui vi si fa assegnamento. [...]
I pensieri logici dominano tutti gli altri e non sono dominati da alcuno, perché non esiste una posizione intellettuale da cui poterli esaminare a fondo senza presupporli (1).
Tuttavia possiamo chiederci: i pensieri logici esistono in sé, oppure sono riconosciuti come tali dall'uomo? La logica esiste in un mondo astratto al quale in qualche modo attingiamo, oppure trova la sua origine, non ancora bene chiarita, all'interno dell'intelletto umano?

(1) Nagel T., L'ultima parola, Feltrinelli 1999 (1997), pp. 63,65.

domenica 11 febbraio 2007

Elogio della ragione / 3

Quali pensieri sono così assolutamente certi che non abbiamo neanche la possibilità di negarli?
Consideriamo, ad esempio, il pensiero che 2+2=4. Si tratta di una affermazione che riguarda la matematica elementare; possiamo pensare, anche ipoteticamente, di negarla?
Se proviamo a pensare che 2+2=5, osserviamo che questa nuova affermazione è per noi insensata.

Negare una proposizione matematica è diverso rispetto al negare dei pensieri empirici. Ad esempio potremmo negare che il mondo che percepiamo sia reale, e che in realtà stiamo sognando; tutte e due le alternative sono plausibili, o almeno intelligibili. Ma se negassimo che 2+2=4, non potremmo neanche dare senso ad una qualsiasi alternativa.

Nulla di tutto ciò che potremmo immaginare diverso, compresa la possibilità di non riuscire a pensare che 2+2=4, comporta la minima possibilità che quella proposizione non sia vera, o sia vera solo in un senso limitato. Se siamo capaci di pensarla, allora, semplicemente, non può essere scalzata da alcun'altra supposizione, per quanto stravagante (1).
Dunque sembrerebbe che 2+2=4 sia vera in sé, indipendentemente da ogni ragionamento o riflessione. Ma possiamo proporre un'altra ipotesi.
L'affermazione 2+2=4 la comprendiamo all'interno di un linguaggio, il linguaggio matematico, caratterizzato da simboli e molto precise relazioni fra i simboli stessi. Questo linguaggio rappresenta il contesto semantico nel quale l'affermazione ha un significato ben preciso; quindi essa non può essere falsa poiché il suo significato è strettamente connesso alla definizione dei simboli "2", "+", "4", "=". In altre parole la verità dell'enunciato 2+2=4 è in qualche modo connessa con la definizione dei simboli che lo compongono. Per questo all'interno del contesto matematico non riusciamo a pensare che possa avere senso che, ad esempio, 2+2=5.
Se, invece, consideriamo la stessa espressione 2+2=4 al di fuori del contesto matematico in cui è nata, la stessa espressione non ha alcun significato, e quindi non ha neanche senso chiedersi se sia vera o falsa.

(1) Nagel T., L'ultima parola, Feltrinelli 1999 (1997), p. 57.

venerdì 9 febbraio 2007

Elogio della ragione / 2

E' possibile sostenere coerentemente una posizione relativistica o scettica?
Se siamo convinti che i nostri giudizi non possano non avere un valore relativo, allora anche questa convinzione avrà un valore relativo. Oppure, se pensiamo che non è possibile conoscere nulla con certezza, allora non possiamo essere certi neanche di quest'ultima affermazione.

Ne segue che una qualsiasi posizione che si basi sul soggetto ha sempre bisogno di un contesto oggettivo per essere coerente.

Il concetto di soggettività esige sempre una cornice oggettiva, al cui interno è situato il soggetto e descritta la sua particolare prospettiva, o complesso di risposte. Non possiamo abbandonare del tutto il punto di vista della giustificazione, ed esso ci guida nella ricerca dei fondamenti oggettivi.
[...] il tentativo serio di identificare nella propria prospettiva ciò che è soggettivo e particolare, oppure relativo e condiviso, conduce inevitabilmente a ciò che è oggettivo e universale (1).
I giudizi oggettivi non possono, quindi, essere del tutto esclusi: o li si accetta fin dall'inizio, oppure se li si nega, vengono affermati dall'atto stesso del negare.

(1) Nagel T., L'ultima parola, Feltrinelli 1999 (1997), pp. 21-22.

mercoledì 7 febbraio 2007

Elogio della ragione / 1

Thomas Nagel sostiene l'importanza della ragione rispetto alle posizioni soggettiviste e relativiste che si sono sviluppate in un clima diffuso di irrazionalismo.
Da una parte la ragione permette di raggiungere giudizi oggettivi basati su giustificazioni, dall'altra, ogni presa di posizione è considerata soggettiva, o comunque relativa alla comunità in cui ci si trova a vivere ed al proprio contesto culturale.
Chiarendo la differenza fra le due posizioni, Nagel afferma che

Poiché il termine cui arrivano tutte le giustificazioni consiste in ciò che le persone che le accettano trovano accettabile, e non nel bisogno di ulteriori giustificazioni, si ritiene che nessuna conclusione possa rivendicare la propria validità al di là della comunità che la rende vera accettandola.
L'idea di ragione, al contrario, fa riferimento a metodi di giustificazione non locali e non relativi: metodi che distinguono le inferenze universalmente legittime da quelle non legittime e che aspirano alla conquista della verità in un senso non relativo (1).
E subito dopo dichiara: "credo nell'esistenza di una cosa, o categoria del pensiero, come la ragione".
Per sostenere la generalità e l'oggettività della ragione contro il soggettivismo e il relativismo, Nagel sente l'esigenza di rendere esplicito il fatto fondamentale che egli crede che la ragione esiste; alla base della difesa dell'oggettività appare esserci, quindi, un atto squisitamente soggettivo.

(1) Nagel T., L'ultima parola, Feltrinelli 1999 (1997), pp. 12-13.

lunedì 5 febbraio 2007

Crisi della scienza / 8

Cartesio cerca di fondare la filosofia su una conoscenza certa ed evidente. Per realizzare il suo programma egli utilizza ciò che, nel linguaggio di Husserl, è chiamata l'epoché: mettere "fra parentesi", dubitare su tutto in modo radicale, così da osservare se c'è qualcosa che, sopravvivendo a una critica così estrema, possa essere assolutamente certo.

Nel suo dubbio universale, Cartesio mette in discussione le nozioni più diffusamente acquisite, e sospende anche la presa di posizione sull'esistenza o non esistenza del mondo. Tuttavia, proprio nell'operare tramite un dubbio che si applica su ogni elemento su cui si posa la mente, emerge con nitidezza che l'io che sta operando non può allo stesso tempo essere negato, ma al contrario esso si afferma in modo indiscutibile in quanto essente: cogito ergo sum; penso, dubito, quindi esisto.

Questo nuovo punto partenza per una analisi filosofica che aspira alla certezza, rappresenta anche un nuovo punto di vista, in particolare, sulla validità dell'esistenza degli oggetti che sono trattati dalla scienza, e che vengono considerati come parte di una realtà oggettiva preesistente alla scienza stessa:

questa vita continua a procedere, ma ciò che in essa mi stava davanti agli occhi come "il" mondo, il mondo che era e valeva per me, è diventato per me un mero "fenomeno" in tutte le determinazioni che gli ineriscono. Tutte queste determinazioni, come il mondo stesso, si sono trasformate in "ideae" [...].
Io, l'io-operante dell'epoché, sono l'unico elemento che escluda assolutamente qualsiasi dubbio, qualsiasi possibilità di dubbio. Tutto ciò che si presenta altrimenti come apodittico, ad es. gli assiomi della matematica, lascia certo aperta la possibilità del dubbio, e quindi può essere pensato come falso -; la possibilità della falsità viene esclusa, ed è questo che giustifica la pretesa dell'apoditticità, soltanto se si riesce a una fondazione mediata ed assolutamente evidente che riconduca a quell'unica evidenza originaria assoluta a cui deve appunto risalire - se una filosofia deve diventare possibile - qualsiasi conoscenza scientifica (1).
Quindi la certezza che io sono, precede la certezza che gli oggetti, anche gli oggetti della scienza o della stessa matematica, effettivamente esistano di per sé.

(1) E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, EST 1997 (1958), p. 106.

domenica 4 febbraio 2007

Crisi della scienza / 7

Un passo ulteriore, nel processo di allontanamento della natura dall'uomo, è rappresentato dalla differenziazione fra il mondo degli oggetti, che diventa, come abbiamo già sottolineato, un mondo essente in-sé, e il mondo della psiche.
La realtà del mondo, nell'interpretazione idealizzata ed astratta che ne dà la nuova scienza, diventa del tutto autonoma rispetto al soggetto che conosce.
Nasce, così, il cosiddetto dualismo che viene portato alle estreme conseguenze da Cartesio.

Una conseguenza di tale dualismo, tuttavia, è che si iniziano a porre domande, mai poste prima in modo così radicale, sul rapporto che c'è fra la conoscenza scientifica oggettivata e il soggetto conoscente.
Alla visione oggettiva che suppone a priori l'esistenza della realtà, si oppone una riflessione, che talvolta confina con lo scetticismo, e che pone il soggetto alla base di qualunque conoscenza del mondo.

La caratteristica dell'obiettivismo è quella di muoversi sul terreno del mondo già dato come ovvio nell'esperienza e di perseguirne la "verità obiettiva", ciò che in esso è incondizionatamente valido per ogni essere razionale, ciò che esso in se stesso è.
[...]
Il trascendentalismo afferma invece: il senso d'essere del mondo-della-vita già dato è una formazione soggettiva, è un'operazione della vita esperiente, pre-scientifica. In essa si costruisce il senso e la validità d'essere del mondo, di quel mondo che vale realmente per colui che realmente esperisce. Per quanto riguarda il mondo "obiettivamente vero", quello della scienza, esso è una formazione di grado più alto fondata sull'esperienza e sul pensiero pre-scientifico, cioè sulle sue operazioni di validità. Soltanto un'operazione radicale che risalga alla soggettività, e cioè alla soggettività che in definitiva produce, nei modi scientifici come in quelli pre-scientifici, tutte le validità del mondo e i loro contenuti, e al che cosa e al come delle attuazioni razionali, può rendere comprensibile la verità obiettiva
e raggiungere il senso d'essere ultimo del mondo (1).
(1) E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, EST 1997 (1958), pp. 97-98.

sabato 3 febbraio 2007

Crisi della scienza / 6

Qual è, dunque, il nucleo della crisi della scienza che Husserl individua?
Abbiamo visto come con Galileo al mondo naturale pre-scientifico si sovrappone una natura idealizzata, che si esprime tramite concetti geometrici, ed ancora di più tramite concetti matematici.
Il metodo scientifico, in questo modo, raggiunge una straordinaria capacità di prevedere i fenomeni naturali, ma nello stesso tempo occulta il suo stesso senso.

Infatti, l'idealizzazione e l'astrazione allontanano la scienza dalle sue origini e si perde l'ispirazione iniziale da cui la stessa scienza è nata: quella di condividere con la filosofia la ricerca di una conoscenza razionale del mondo. Il metodo scientifico, che nasce per rendere progressivamente più precise le intuizioni sensoriali dei fenomeni, diventa il mezzo attraverso cui gli enti ideali della geometria o della matematica vengono assunti come reali. Ed in questo modo la scienza si allontana dall'uomo e dalle esperienze originarie dalle quali è nata la sua stessa esigenza di conoscenza.

Nella sfera reale delle sue indagini e delle sue scoperte [lo scienziato] non sa affatto che tutto quanto queste considerazioni dovranno chiarire esige un chiarimento, in vista dell'interesse più alto e determinante per una filosofia, per una scienza in generale: l'interesse ad una conoscenza reale del mondo stesso, della natura stessa. Appunto quest'interesse è andato perduto nella scienza tradizionale, nella scienza divenuta techne, per quanto fosse determinante al momento della sua originaria fondazione (1).
(1) E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, EST 1997 (1958), p. 85.

giovedì 1 febbraio 2007

Crisi della scienza / 5

Galileo sovrappone al mondo delle intuizioni sensibili e della concretezza, una lettura basata sulle caratteristiche dell'esattezza. A partire dalla misura dei rapporti spaziotemporali i fenomeni sono descritti tramite enti geometrici, che a loro volta sono ricondotti a rapporti formali, sintetizzati da formule matematiche.

La geometria viene, così, aritmetizzata, e si realizza un ulteriore allontanamento da ogni realtà intuitiva.

Nel calcolo algebrico, il significato geometrico passa da sé in secondo piano, anzi cade completamente; si calcola, e soltanto alla fine ci si ricorda che i numeri stanno a significare grandezze.
L'efficacia e il fascino che derivano dalla descrizione fisicalista del mondo, portano ad un rischio: pensare che gli strumenti sempre più astratti che si sono sviluppati per leggere, interpretare, ordinare la realtà, coincidano con la realtà stessa, anzi diventino in qualche modo più veri del "mondo intuitivo della vita concretamente reale, nell'ambito del quale la matematica non è che una prassi particolare".
E' inoltre comprensibile come potesse nascere la tentazione di vedere in queste formule e nel loro senso il vero essere della natura stessa (1).
(1) E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, EST 1997 (1958), pp. 72-73.