martedì 20 marzo 2007

Scienze cognitive / 2

Nel periodo in cui hanno avuto origine le scienze cognitive (e contemporaneamente anche la cibernetica), si possono identificare due differenti prospettive teoriche.
La prima era rappresentata da Von Neumann, e concentrava il proprio interesse sui sistemi cosiddetti eteronimi, cioè determinati dall'esterno; la loro caratterizzazione si ottiene attraverso relazioni di input e output, ed essi tendono a creare una rappresentazione dell'ambiente.
La seconda è rappresentata da Wiener, e il suo interesse è rivolto ai sistemi autonomi, cioè determinati dall'interno; questi sono caratterizzati da una chiusura organizzazionale e dagli autocomportamenti, inoltre essi non rappresentano qualcosa già esistente di per sé, ma costruiscono, producono un mondo tramite una correlazione con l'ambiente.
Ciò che Varela sottolinea, è che questi due punti di vista non si trovano in una opposizione logica fra di loro, ma sono piuttosto correlati secondo una relazione di complementarità: c'è bisogno di tutti e due i punti di vista per una conoscenza completa del sistema unitario.

Su questa base Francisco Varela ha cercato di costruire una scienza cognitiva pluralista, capace di articolare vicendevolmente le diverse prospettive disponibili sull'oggetto che indaga, anche e primariamente quando queste si rifanno a strutture teoriche irriducibilmente diverse tra loro. [...]
E' questo uno dei messaggi più profondi che Francisco Varela ha lasciato in eredità agli specialisti delle scienze cognitive: mantenere e articolare una pluralità diversificata di punti di vista teorici, perché ognuno di essi, pur producendo zone d'ombra, può illuminare le zone d'ombra generate dagli altri (1).
(1) M. Ceruti e L. Damiano, in M. Cappuccio (a cura di), Neurofenomenologia, Bruno Mondadori 2006, pp. 12-13.

domenica 18 marzo 2007

Scienze cognitive / 1

Negli ultimi decenni del '900 lo studio scientifico dei processi tramite cui avviene la conoscenza si è notevolmente sviluppato, dando vita alle cosiddette scienze cognitive.
Negli anni cinquanta il modello teorico prevalente era quello che si può definire computazionalista, che si basa sull'identificazione dell'apparato cognitivo umano con un calcolatore digitale.
Oggi questa prospettiva non ha soddisfatto le grandi aspettative che si erano create attorno ad essa, e l'idea di una computazione centralizzata e basata su operazioni sequenziali, è considerata superata.

L'orientamento emergente delle scienze cognitive non si limita a riconoscere il carattere altamente connettivo e distribuito di tutti i processi neurali, ma arriva a rifiutare esplicitamente l'idea di un apparato cognitivo che funziona secondo uno schema input-output, stimolo-risposta. Rifiuta l'idea d'informazioni preesistenti, predefinite e preselezionate rispetto alla loro elaborazione, nonché l'idea di una conoscenza che, procedendo per calcoli simbolici, confeziona copie del mondo esterno. Soprattutto, rifiuta l'immagine di un conoscere astratto, privo di coloriture emozionali, sostanzialmente indipendente dall'intenzionalità e dall'azione (1).
(1) M. Ceruti e L. Damiano, in M. Cappuccio (a cura di), Neurofenomenologia, Bruno Mondadori 2006, p. 10.

giovedì 15 marzo 2007

Essere e pensiero / 3

Pensiamo, e nel pensiero ci chiediamo da dove ha origine il pensiero stesso.

Attivazione di neuroni, emergenza dalla complessità della struttura cerebrale, materia che si esprime nell'essere coscienti: qui si nasconde la risposta.

Ma cos'è materia? Anch'essa ci appare in un pensiero; il cerchio si chiude.
E insistente si ripropone la domanda: da dove ha origine il pensare?

Fra gli alti abeti...

[...]

Ciò che è più antico fra ciò che è antico giunge nel nostro pensare
da dietro di noi, e tuttavia ci attende.

Per questo il pensare si rivolge all'avvento di
ciò che è passato, ed è pensiero rammemorante.

Essere antico significa: al momento opportuno arrestarsi, là dove il
solo pensiero di una via di pensiero nella sua complessione
sia lanciato.

Il passo indietro dalla filosofia nel
pensiero dell'essere possiamo osare, appena
dell'origine del pensare intimi si sia
diventati.
M. Heidegger, Fra gli alti abeti... , in F. Cassinari, Martin Heidegger - Il pensiero poetante, Mimesis 2000, p. 157.

martedì 13 marzo 2007

Essere e pensiero / 2

Pensare il pensare.
Pensare l'essere del pensare.
Pensare che c'è pensiero.
Pensare che c'è questo pensiero.

Proprio quando il pensiero si chiude su se stesso e i contorni del mondo iniziano a sfumare, allora emerge un accorgersi differente, poiché non coglie la qualità degli oggetti, ma il fatto che esistono. E questa consapevolezza non lascia indifferenti.

Fra gli alti abeti...

[...]

L'ottenebramento del mondo
non eguaglia mai
la luce dell'essere.

Veniamo troppo tardi per gli dei e
troppo presto per l'essere. Del quale poesia iniziata
è l'uomo.

Accostarsi a una stella...

Pensare è la limitazione a un solo
pensiero, che una volta per sempre come una stella
nel cielo
del mondo resta fisso.
M. Heidegger, Fra gli alti abeti... , in F. Cassinari, Martin Heidegger - Il pensiero poetante, Mimesis 2000, p. 149.

sabato 10 marzo 2007

Essere e pensiero / 1

Essere è un concetto, un'idea che si esprime nel pensiero? Per Heidegger vale piuttosto il contrario: in qualche modo l'essere precede il pensiero. L'essere non può essere ridotto, ricondotto completamente al pensiero. Se non altro perché anche il pensiero è.

Quando osserviamo un libro su un tavolo e pensiamo che c'è un libro sul tavolo, in genere intendiamo dire che il libro è collocato sul tavolo; ed usiamo essere nel senso di essere collocato in un luogo determinato: il libro è sul tavolo, ad esempio, e non è sullo scaffale.
Tuttavia il significato di essere non si esaurisce nel trovarsi in un certo punto dello spazio o nelle relazioni fra un oggetto e gli altri oggetti; infatti anche le relazioni sono.

Essere, dunque, precede il pensiero, e precede anche le relazioni fra le cose. Per questo, quando si coglie essere nel senso più originario, si coglie che qualcosa è indipendentemente dalle relazioni che essa ha con gli altri oggetti. Il singolo oggetto perde, allora, i contorni grazie ai quali lo pensiamo come separato dagli altri oggetti, perde la sua identità specifica, e viene colto come un tutto unico, non più distinto dal resto del mondo.

Essere e pensiero

Essere - un parto del pensiero?

Pensare è sempre evento dell'essere

Imparate anzitutto a rendere grazie
e potrete pensare

Niente è per nulla
tutto è unico.
M. Heidegger, Essere e pensiero, in F. Cassinari, Martin Heidegger - Il pensiero poetante, Mimesis 2000, p. 71.

mercoledì 7 marzo 2007

Riduzionismo / 4

Per mettere in evidenza come il riduzionismo non è adeguato per studiare determinati fenomeni, consideriamo l'esempio di un martello: si potrebbe analizzare a livello molecolare il materiale di cui è composto il manico o la testa del martello, ma non aggiungeremmo nulla rispetto alle proprietà del martello in quanto tale. Anzi, queste proprietà sono in qualche modo indipendenti dal fatto che il manico sia di legno o di plastica.
Quando, ad un livello superiore, si trovano delle proprietà che non sono spiegabili tramite un'analisi riduzionista, allora si dice che queste proprietà emergono dai livelli inferiori, o meglio: esse emergono dall'organizzazione che si crea fra le componenti più elementari del sistema.

Una delle tipiche obiezioni dei riduzionisti nei confronti dell'emergentismo è che, quando compare un evento emergente, non si produce nulla di nuovo. Tale pretesa, però, è vera solo a metà. A ben vedere, è vero che non viene prodotto alcun elemento nuovo: un martello è costituito dagli stessi elementi di cui sono fatte le sue componenti isolate, manico e testa. Eppure qualcosa di nuovo, in realtà si è prodotto: l'interazione fra manico e testa. Né l'impugnatura di legno da sola, né la testa del martello possono compiere (in modo efficace) le funzioni tipiche del martello. Quando però li uniamo assieme. "emergono" le proprietà dell'utensile. Ed è proprio questa interazione generata ex novo la proprietà essenziale di ogni sistema "emerso", a partire dal livello molecolare fino ai livelli superiori. L'emergenza si produce grazie ai nuovi rapporti (interazioni) stabiliti fra componenti in precedenza non collegate tra loro. Anzi, una delle ragioni fondamentali cui si deve l'insuccesso del riduzionismo è proprio il fatto di non aver considerato l'importanza di tali connessioni (1).
(1) E. Mayr, L'unicità della biologia, Raffaello Cortina Editore 2005 (2004), p. 79.

domenica 4 marzo 2007

Riduzionismo / 3

La posizione estrema di chi vorrebbe ridurre lo studio della biologia alla chimica e quest'ultima alla fisica, non sembra sostenibile; questa posizione è testimoniata anche da un fisico come Murray Gell-Mann:

Le forme di vita terrestri sarebbero il risultato di un gran numero di eventi aleatori, ognuno dei quali avrebbe contribuito alle notevoli regolarità della biochimica terrestre, facendole acquisire, in tal modo, una elevata complessità effettiva. [...]
Le leggi della biologia dipendono dalle leggi della fisica e della chimica, ma anche da una grande quantità di informazione addizionale su come si sono determinati quegli eventi accidentali. Qui, ben più che nella fisica nucleare, nella fisica della materia condensata o nella chimica, si constata che vi è un'enorme differenza tra il tipo di riduzione alle leggi fisiche fondamentali che è possibile in linea di principio e il tipo banale che la parola "riduzione" potrebbe evocare nella mente del lettore ingenuo. Lo studio del vivente è ben più complesso della fisica fondamentale: infatti un numero grandissimo delle regolarità degli organismi terrestri risultano da eventi accidentali, oltre che dalle leggi fondamentali (1).
In altri termini non si può ricondurre lo studio della biologia, e in particolare della biologia del vivente, solamente ad una serie di leggi; infatti c'è un elemento che contribuisce in modo fondamentale allo sviluppo degli organismi biologici: il caso. Grazie alla casualità si crea la storia, intesa come serie di eventi possibili e non totalmente riconducibili ad una necessità, la quale diventa, in questo ambito, un imprescindibile strumento di analisi scientifica. Si pensi, come esempio di avvenimento accidentale, alla scomparsa dei dinosauri e alle conseguenze, nell'ambito dell'evoluzione, che ad essa sono seguite.
La presenza del caso nello sviluppo biologico implica che alcune informazioni devono essere introdotte allo stesso livello che si sta analizzando, proprio perché, per definizione, il caso è irriducibile a spiegazioni causali.

(1) M. Gell-Mann, Il quark e il giaguaro, Bollati Boringhieri 1996 (1994), pp. 140-141.

sabato 3 marzo 2007

Riduzionismo / 2

Un'altra distinzione importante è quella fra analisi e riduzionismo.
Il metodo analitico consiste nello scindere un sistema nelle sue componenti più elementari, ma porta avanti questa operazione di divisione solo finché effettivamente si possono ottenere informazioni utili. L'analisi, infatti, non è convinta che la conoscenza delle parti più piccole possa fornire tutte le risposte:

[essa] differisce dalla riduzione in quanto non sostiene che le componenti di un sistema, rivelate analiticamente, forniscano un'informazione completa su tutte le proprietà del sistema, dal momento che essa (l'analisi) non fornisce una descrizione esaustiva delle interazioni che si stabiliscono tra le componenti di un sistema (1).
L'analisi, quindi, lascia spazio allo studio del comportamento del sistema a diversi livelli, evidenziando come ogni livello ha caratteristiche peculiari che non possono essere spiegate facendo riferimento al livello sottostante.
Ad esempio, se si scinde l'acqua in idrogeno ed ossigeno gassosi, non si riesce a spiegare la sua liquidità, e le proprietà connesse con la stessa liquidità. In altri termini, non si riesce a derivare l'idrodinamica dallo studio dei gas.

(1) E. Mayr, L'unicità della biologia, Raffaello Cortina Editore 2005 (2004), p. 74.

giovedì 1 marzo 2007

Riduzionismo / 1

Il riduzionismo rappresenta un approccio alla conoscenza scientifica secondo il quale per spiegare un sistema bisogna scinderlo nei suoi elementi costitutivi; quindi questi elementi saranno divisi ulteriormente in parti più elementari, e così via, fino ad arrivare agli elementi fondamentali della realtà.
In particolare, secondo un punto di vista strettamente riduzionistico applicato alla biologia:

1. Non si può comprendere alcun fenomeno biologico di livello superiore finché non se ne analizzino le componenti presenti al successivo livello inferiore; tale scomposizione analitica deve proseguire in direzione discendente fino al livello caratterizzato da processi puramente chimico-fisici.
2. Un siffatto ragionamento porta ad affermare, inoltre, che il fatto di conoscere le componenti del livello inferiore permette di ricostruire tutti i livelli superiori, e fornisce una conoscenza esaustiva dei livelli più elevati. Tali pretese dei riduzionisti derivano dalla loro convinzione che ogni entità nel suo complesso corrisponda nient'altro che alla somma delle singole parti (1).
Al riduzionismo si oppone un approccio di tipo olistico, che tiene conto delle interazioni fra le parti di un sistema, evidenziando come in un sistema complesso emergano proprietà che sono caratteristiche del livello di descrizione che viene considerato, e che non sono riducibili agli elementi di livello inferiore.

(1) E. Mayr, L'unicità della biologia, Raffaello Cortina Editore 2005 (2004), p. 74.

lunedì 26 febbraio 2007

Seguire le regole / 5

Potrebbe sembrare, allora, che ogni regola possa essere interpretata in modo arbitrario, e che quindi, in definitiva, non abbia neanche senso parlare di regole.
Ma, in realtà, quando seguiamo una regola, lo facciamo in base alle abitudini che abbiamo già acquisito, in base all'addestramento che in passato abbiamo ricevuto:

Quando seguo la regola non scelgo.
Seguo la regola ciecamente (1).
Si potrebbe dire, dunque, che non c'è spazio per l'arbitrio individuale, ma nello stesso tempo non si può pensare che esista una interpretazione vera, genuina della regola già da sempre dotata del suo senso. Piuttosto è come se alle regole mancasse un fondamento logico, razionale, e il loro senso derivasse dall'esterno:
"Ma come può una regola insegnarmi che cosa devo fare a questo punto? Qualunque cosa io faccia, può sempre essere resa compatibile con la regola mediante una qualche interpretazione". - No, non si dovrebbe dire così. Si dovrebbe invece dire: Ogni interpretazione è sospesa nell'aria insieme con l'interpretato; quella non può servire da sostegno a questo. Le interpretazioni, da sole, non determinano il significato (2).
(1) L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Einaudi 1983 (1953), § 219, p. 114.
(2) L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Einaudi 1983 (1953), § 198, p. 107.

giovedì 22 febbraio 2007

Seguire le regole / 4

Seguire una regola, quindi, non è qualcosa che può essere comunicato solamente attraverso descrizioni. Poiché le descrizioni vanno interpretate, ed anche le interpretazioni vanno, a loro volta, interpretate.
Per questo, seguire una regola è una prassi, e per apprendere come seguire una regola è necessario un addestramento.

Nel corso di questo addestramento gli mostrerò lunghezze eguali, figure eguali, colori eguali: e lui dovrà a sua volta individuarli e riprodurli, e così via. Lo avvierò, per esempio, a proseguire 'in modo eguale' un motivo ornamentale, quando riceve un certo ordine. - E anche a continuare progressioni; per esempio a proseguire . .. ..., così: .... ..... ......
Gli faccio vedere come si fa, e lui fa come faccio io; e influisco su di lui con espressioni di consenso, di rifiuto, di aspettazione, di incoraggiamento. Lo lascio fare, oppure lo trattengo; e così via.
Immagina di essere testimone di un addestramento del genere. Nessuna parola sarebbe definita mediante se stessa, non si cadrebbe in nessun circolo logico.
Nel corso di questo addestramento verrebbero spiegate anche le espressioni "e così via" e "e così via all'infinito". A questo scopo potrebbe servire, tra le altre cose, un gesto. Il gesto che significa "continua così!" e "così via" ha una funzione paragonabile a quella dell'indicare un oggetto o un luogo (1).
Da questo punto di vista, anche l'apprendimento di contenuti teorici è una forma di apprendistato.
Per questo c'è ancora bisogno di maestri.

(1) L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Einaudi 1983 (1953), § 208, pp. 110-111.

mercoledì 21 febbraio 2007

Seguire le regole / 3

Di fronte ad una regola, generalmente abbiamo la convinzione che esista una giusta interpretazione che ci spiegherà come seguire la regola.
Ma esiste una giusta interpretazione? E soprattutto: in cosa consiste?

Quando ci troviamo davanti un cartello con una freccia rivolta in avanti pensiamo che ci indichi di proseguire. Supponiamo, però, che arrivi una persona che quando vede il cartello torna indietro, poiché egli è convinto che quel cartello indichi esattamente quel che sta facendo. Allora noi gli spieghiamo che il significato del cartello, in realtà, è quello di andare avanti. Ma l'altro sostiene che egli sta esattamente andando avanti; egli intende in questo modo l'andare avanti.
Potremmo cercare di spiegarci ulteriormente, ma rischieremmo ancora di non capirci, finché non decidessimo di mostrare con un azione al nostro interlocutore cosa significa per noi seguire le indicazioni del cartello.

Oppure pensiamo di chiedere ad un matematico di completare la seguente successione: 1, 2, 3, 4, ...
Il matematico, inaspettatamente, la completa con i numeri 5.48, 8.4, 14.2, ...
Noi non siamo d'accordo, sostenendo che la corretta continuazione è ovviamente 5, 6, 7, ..., ma il matematico afferma che il suo completamento è dato da una successione che deriva dal più semplice polinomio da cui si può derivare anche la prima parte della successione.
In breve, se P(x)=x4/50-x3/5+x27/10+12/25, allora si ha che P(1)=1, P(2)=2, P(3)=3, P(4)=4, P(5)=5.48, P(6)=8.4, P(7)=14.2, ...

Rimanendo nell'ambito dei significati non riusciamo a evidenziare qual'è la giusta interpretazione.

Il nostro paradosso era questo: una regola non può determinare alcun modo d'agire, poiché qualsiasi modo d'agire può essere messo d'accordo con la regola. La risposta è stata: Se può essere messo d'accordo con la regola potrà anche essere messo in contraddizione con essa. Qui non esistono, pertanto, né concordanza né contraddizione (1).
Ma cosa si è voluto dimostrare con questi discorsi? Che ogni regola può essere interpretata in modo arbitrario?
L'obiettivo, piuttosto, è quello di mostrare che c'è una distanza incolmabile fra interpretazione di una regola e modalità di azione.
Se, allora, siamo convinti che una regola deve essere seguita in un ben determinato modo, da dove deriva quel modo d'agire? Sicuramente non da un'interpretazione, ma da un addestramento.

(1) L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Einaudi 1983 (1953), § 201, p. 108.

lunedì 19 febbraio 2007

Seguire le regole / 2

Che relazione c'è fra l'espressione di una regola e seguire la regola stessa?

Supponiamo di essere in un paese straniero e di incontrare il seguente simbolo sconosciuto: x&2. Ci informiamo presso un abitante del luogo, ma qualunque spiegazione ci sembra incomprensibile.
Allora l'abitante del luogo scrive una serie di uguaglianze: 1&2=2, 2&2=4, 3&2=6, 4&2=8, 5&2=10,... e a noi sembra di aver capito: "x&2" significa moltiplicare x per 2.
Tuttavia che certezza abbiamo di aver compreso la regola associata al simbolo? La regola riguarda un'infinità di casi, mentre noi ne possiamo controllare solo un numero finito.

Dunque, in base a cosa impariamo a seguire una regola? Ogni spiegazione deve essere interpretata e ci conduce sempre ad una ulteriore interpretazione. Ogni insieme di esempi è insufficiente poiché è necessariamente finito, mentre la regola riguarda un numero infinito di casi.
Probabilmente, allora, impariamo a seguire una regola perché siamo addestrati a farlo; in questo senso "'seguire la regola' è una prassi. E credere di seguire la regola non è seguire la regola".

Lasciami chiedere: Che cosa ha da spartire l'espressione della regola - diciamo un segnale stradale - con le mie azioni? Che tipo di connessione sussiste fra le due cose? - Ebbene, forse questa: sono stato addestrato a reagire in un determinato modo a questo segno, ed ora reagisco così.
Ma in questo modo hai solo indicato un nesso causale, hai solo spiegato come mai ora ci regoliamo secondo le indicazioni di un segnale stradale; non in che consista, propriamente, questo attenersi ad un segnale. No; ho anche messo in evidenza che uno si regola secondo le indicazioni di un segnale stradale solo in quanto esiste un uso stabile, un'abitudine" (1).
(1) L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Einaudi 1983 (1953), § 198, p. 107.

domenica 18 febbraio 2007

Seguire le regole / 1

Cosa vuol dire seguire una regola?
Supponiamo di trovarci in un paese straniero, e di incontrare un cartello stradale con una freccia rivolta in avanti. Come interpretiamo questo cartello? Saremmo portati a seguire la punta della freccia, ma ci viene il dubbio che quel cartello vada interpretato in modo diverso.
Chiediamo, allora, ad un abitante del luogo che passa lì vicino come deve essere interpretato il cartello, ed egli ci spiega che bisogna andare dritti. Tranquillizzati dalla spiegazione ci mettiamo in moto seguendo la punta della freccia, quando la persona che ci ha appena dato le spiegazioni inizia a gridare facendoci capire che abbiamo sbagliato, che non si può andare in quella direzione.

Avevamo chiesto l'interpretazione corretta del cartello, ma l'avevamo compresa? Forse avevamo bisogno anche dell'interpretazione dell'interpretazione: cosa voleva dire dritto in quel paese?

Di cosa c'è bisogno per seguire correttamente una regola ? Sembra che non basti un'interpretazione, e neanche l'interpretazione dell'interpretazione, poiché si potrebbe andare avanti all'infinito.

Una regola sta lì, come un indicatore stradale. - Non lascia àdito ad alcun dubbio circa la strada che devo prendere? Mi dice in quale direzione devo procedere quando l'ho attraversato? Se devo proseguire per la strada, o predere per il viottolo, o andare attraverso i campi? Ma dove sta scritto in quale senso devo seguire quel segnale? Se devo andare nella direzione indicata dal dito o non piuttosto (p. es.) nella direzione opposta? (1)
(1) L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Einaudi 1983 (1953), § 85, p. 56.

giovedì 15 febbraio 2007

Elogio della ragione / 6

Le impressioni che abbiamo del mondo sono corrette? Esse ci permettono di conoscere una corrispondente verità sottostante, oppure sono erronee e vanno modificate poiché descrivono una realtà distorta dalla stessa osservazione?

Ecco un argomentazione a favore della prima posizione, che può essere individuata come realista:
- non possiamo sviluppare una qualsiasi critica se non a partire da una determinata concezione del mondo;
- nel momento in cui abbiamo una qualsiasi opinione sul rapporto fra realtà e soggetto conoscente, tale opinione non può non essere accettata come certa;
- anche l'idea di non avere un'opinione certa è un'opinione certa;
- anche se pensiamo che le impressioni che abbiamo del mondo non siano corrette, comunque consideriamo quest'ultima è un'impressione corretta.

Una volta abbandonata la condizione puramente animale e riflettuto sulle nostre impressioni, abbiamo di fronte due possibilità. Possiamo concludere che sono corrette, o per lo meno degne di essere conservate, oppure possiamo concludere che sono sotto alcuni aspetti erronee e devono essere modificate. Ma in entrambi i casi ciò potrà essere fatto solo a partire da una nuova concezione del mondo in cui siamo situati. In quanto inintelligibile, la scelta di riflettere sulla nostra precedente concezione del mondo da un punto di vista che non implichi una concezione del mondo ci è preclusa. La cornice esterna di qualunque modo di vedere noi stessi, per quanto sofisticato e autoconsapevole, deve consistere di pensieri non soggettivi, dati per certi. Non c'è altro a disposizione, se non una vuota insensatezza: e questa è sempre a disposizione (1).
A questo punto Nagel sostiene che nel momento in cui scopriamo un ordine nei fenomeni, l'idea che questo ordine "sia imposto dalle condizioni della nostra esperienza, o addirittura da un accordo, è del tutto implausibile": l'ordine inferito dalle nostre osservazioni è un "ordine reale".

Tuttavia, il fatto che ci sia sempre qualcosa di certo, non significa che tutte le impressioni che abbiamo del mondo siano corrette. Inoltre, perché non è plausibile pensare che l'osservazione contribuisca in qualche modo alla definizione di ciò che è osservato?

(1) Nagel T., L'ultima parola, Feltrinelli 1999 (1997), pp. 94-95.

mercoledì 14 febbraio 2007

Elogio della ragione / 5

Cosa vuol dire comprendere, intendere un significato?
Ad esempio, siamo in grado di descrivere cosa accade in noi quando comprendiamo il pensiero “aggiungi due”?
Potremmo descrivere tutte le azioni che associamo a questa comprensione: se abbiamo davanti delle arance prendiamo altre due arance, se stiamo facendo dei calcoli aggiungiamo due unità al risultato che abbiamo appena ottenuto, ecc.
Tuttavia l’elenco delle azioni che si possono descrivere è finito, mentre le diverse azioni che si possono associare alla comprensione di “aggiungi due” sono potenzialmente infinite. Dunque questa spiegazione è insufficiente.

In modo alternativo potremmo spiegare l’espressione “aggiungi due” in termini di espressioni più semplici: “aggiungi due” vuol dire “aggiungi uno” ripetuto due volte. Tuttavia non risolveremmo il problema ma solamente lo sposteremmo, perché ora dovremmo chiarire cosa significa comprendere le espressioni più semplici che abbiamo utilizzato per spiegare quella più complicata.

Sembra, dunque, che non sia possibile ridurre il fenomeno della comprensione ad una descrizione naturalistica, ad una descrizione di azioni o di stati psicologici. La comprensione dei significati, quindi, ha in sé qualcosa di irriducibile e di indubitabile, che possiamo chiamare intenzionalità.

Proprio come non posso dubitare della mia esistenza, non posso dubitare che qualcuna delle mie parole abbia un significato, perché per poter dubitare di questo le parole che uso a tal fine devono avere un significato. […]
Alcuni significati complessi possono essere analizzati in termini di significati più semplici, ma non esiste alcuna spiegazione non circolare, in termini naturalistici – di comportamento, di disposizione, psicologici o fisiologici – dell’intendere in generale (1).
L’intenzionalità, quindi, rappresenta il nucleo centrale del processo del comprendere; essa appare come un’esperienza propria del soggetto individuale e non può essere ricondotta ad una descrizione oggettiva.

(1) Nagel T., L'ultima parola, Feltrinelli 1999 (1997), pp. 48-49.

lunedì 12 febbraio 2007

Elogio della ragione / 4

Si possono negare le affermazioni che riguardano la logica di base?
Consideriamo, ad esempio, la contrapposizione: se A implica B, allora non-B implica non-A. Cioè, per fissare le idee, se l'essere un quadrato implica di essere un quadrilatero, allora il non essere un quadrilatero implica di non essere un quadrato.

Se mettiamo in dubbio la validità di una contrapposizione, di fatto mettiamo in dubbio la nostra capacità di dedurre una conclusione. E quindi implicitamente stiamo mettendo in dubbio la nostra stessa capacità di mettere in dubbio la contrapposizione.

Non c'è spazio nello scetticismo sulla logica di base, perché non c'è una posizione da cui poterlo esprimere o pensare senza cadere in contraddizione nel momento stesso in cui vi si fa assegnamento. [...]
I pensieri logici dominano tutti gli altri e non sono dominati da alcuno, perché non esiste una posizione intellettuale da cui poterli esaminare a fondo senza presupporli (1).
Tuttavia possiamo chiederci: i pensieri logici esistono in sé, oppure sono riconosciuti come tali dall'uomo? La logica esiste in un mondo astratto al quale in qualche modo attingiamo, oppure trova la sua origine, non ancora bene chiarita, all'interno dell'intelletto umano?

(1) Nagel T., L'ultima parola, Feltrinelli 1999 (1997), pp. 63,65.

domenica 11 febbraio 2007

Elogio della ragione / 3

Quali pensieri sono così assolutamente certi che non abbiamo neanche la possibilità di negarli?
Consideriamo, ad esempio, il pensiero che 2+2=4. Si tratta di una affermazione che riguarda la matematica elementare; possiamo pensare, anche ipoteticamente, di negarla?
Se proviamo a pensare che 2+2=5, osserviamo che questa nuova affermazione è per noi insensata.

Negare una proposizione matematica è diverso rispetto al negare dei pensieri empirici. Ad esempio potremmo negare che il mondo che percepiamo sia reale, e che in realtà stiamo sognando; tutte e due le alternative sono plausibili, o almeno intelligibili. Ma se negassimo che 2+2=4, non potremmo neanche dare senso ad una qualsiasi alternativa.

Nulla di tutto ciò che potremmo immaginare diverso, compresa la possibilità di non riuscire a pensare che 2+2=4, comporta la minima possibilità che quella proposizione non sia vera, o sia vera solo in un senso limitato. Se siamo capaci di pensarla, allora, semplicemente, non può essere scalzata da alcun'altra supposizione, per quanto stravagante (1).
Dunque sembrerebbe che 2+2=4 sia vera in sé, indipendentemente da ogni ragionamento o riflessione. Ma possiamo proporre un'altra ipotesi.
L'affermazione 2+2=4 la comprendiamo all'interno di un linguaggio, il linguaggio matematico, caratterizzato da simboli e molto precise relazioni fra i simboli stessi. Questo linguaggio rappresenta il contesto semantico nel quale l'affermazione ha un significato ben preciso; quindi essa non può essere falsa poiché il suo significato è strettamente connesso alla definizione dei simboli "2", "+", "4", "=". In altre parole la verità dell'enunciato 2+2=4 è in qualche modo connessa con la definizione dei simboli che lo compongono. Per questo all'interno del contesto matematico non riusciamo a pensare che possa avere senso che, ad esempio, 2+2=5.
Se, invece, consideriamo la stessa espressione 2+2=4 al di fuori del contesto matematico in cui è nata, la stessa espressione non ha alcun significato, e quindi non ha neanche senso chiedersi se sia vera o falsa.

(1) Nagel T., L'ultima parola, Feltrinelli 1999 (1997), p. 57.

venerdì 9 febbraio 2007

Elogio della ragione / 2

E' possibile sostenere coerentemente una posizione relativistica o scettica?
Se siamo convinti che i nostri giudizi non possano non avere un valore relativo, allora anche questa convinzione avrà un valore relativo. Oppure, se pensiamo che non è possibile conoscere nulla con certezza, allora non possiamo essere certi neanche di quest'ultima affermazione.

Ne segue che una qualsiasi posizione che si basi sul soggetto ha sempre bisogno di un contesto oggettivo per essere coerente.

Il concetto di soggettività esige sempre una cornice oggettiva, al cui interno è situato il soggetto e descritta la sua particolare prospettiva, o complesso di risposte. Non possiamo abbandonare del tutto il punto di vista della giustificazione, ed esso ci guida nella ricerca dei fondamenti oggettivi.
[...] il tentativo serio di identificare nella propria prospettiva ciò che è soggettivo e particolare, oppure relativo e condiviso, conduce inevitabilmente a ciò che è oggettivo e universale (1).
I giudizi oggettivi non possono, quindi, essere del tutto esclusi: o li si accetta fin dall'inizio, oppure se li si nega, vengono affermati dall'atto stesso del negare.

(1) Nagel T., L'ultima parola, Feltrinelli 1999 (1997), pp. 21-22.

mercoledì 7 febbraio 2007

Elogio della ragione / 1

Thomas Nagel sostiene l'importanza della ragione rispetto alle posizioni soggettiviste e relativiste che si sono sviluppate in un clima diffuso di irrazionalismo.
Da una parte la ragione permette di raggiungere giudizi oggettivi basati su giustificazioni, dall'altra, ogni presa di posizione è considerata soggettiva, o comunque relativa alla comunità in cui ci si trova a vivere ed al proprio contesto culturale.
Chiarendo la differenza fra le due posizioni, Nagel afferma che

Poiché il termine cui arrivano tutte le giustificazioni consiste in ciò che le persone che le accettano trovano accettabile, e non nel bisogno di ulteriori giustificazioni, si ritiene che nessuna conclusione possa rivendicare la propria validità al di là della comunità che la rende vera accettandola.
L'idea di ragione, al contrario, fa riferimento a metodi di giustificazione non locali e non relativi: metodi che distinguono le inferenze universalmente legittime da quelle non legittime e che aspirano alla conquista della verità in un senso non relativo (1).
E subito dopo dichiara: "credo nell'esistenza di una cosa, o categoria del pensiero, come la ragione".
Per sostenere la generalità e l'oggettività della ragione contro il soggettivismo e il relativismo, Nagel sente l'esigenza di rendere esplicito il fatto fondamentale che egli crede che la ragione esiste; alla base della difesa dell'oggettività appare esserci, quindi, un atto squisitamente soggettivo.

(1) Nagel T., L'ultima parola, Feltrinelli 1999 (1997), pp. 12-13.

lunedì 5 febbraio 2007

Crisi della scienza / 8

Cartesio cerca di fondare la filosofia su una conoscenza certa ed evidente. Per realizzare il suo programma egli utilizza ciò che, nel linguaggio di Husserl, è chiamata l'epoché: mettere "fra parentesi", dubitare su tutto in modo radicale, così da osservare se c'è qualcosa che, sopravvivendo a una critica così estrema, possa essere assolutamente certo.

Nel suo dubbio universale, Cartesio mette in discussione le nozioni più diffusamente acquisite, e sospende anche la presa di posizione sull'esistenza o non esistenza del mondo. Tuttavia, proprio nell'operare tramite un dubbio che si applica su ogni elemento su cui si posa la mente, emerge con nitidezza che l'io che sta operando non può allo stesso tempo essere negato, ma al contrario esso si afferma in modo indiscutibile in quanto essente: cogito ergo sum; penso, dubito, quindi esisto.

Questo nuovo punto partenza per una analisi filosofica che aspira alla certezza, rappresenta anche un nuovo punto di vista, in particolare, sulla validità dell'esistenza degli oggetti che sono trattati dalla scienza, e che vengono considerati come parte di una realtà oggettiva preesistente alla scienza stessa:

questa vita continua a procedere, ma ciò che in essa mi stava davanti agli occhi come "il" mondo, il mondo che era e valeva per me, è diventato per me un mero "fenomeno" in tutte le determinazioni che gli ineriscono. Tutte queste determinazioni, come il mondo stesso, si sono trasformate in "ideae" [...].
Io, l'io-operante dell'epoché, sono l'unico elemento che escluda assolutamente qualsiasi dubbio, qualsiasi possibilità di dubbio. Tutto ciò che si presenta altrimenti come apodittico, ad es. gli assiomi della matematica, lascia certo aperta la possibilità del dubbio, e quindi può essere pensato come falso -; la possibilità della falsità viene esclusa, ed è questo che giustifica la pretesa dell'apoditticità, soltanto se si riesce a una fondazione mediata ed assolutamente evidente che riconduca a quell'unica evidenza originaria assoluta a cui deve appunto risalire - se una filosofia deve diventare possibile - qualsiasi conoscenza scientifica (1).
Quindi la certezza che io sono, precede la certezza che gli oggetti, anche gli oggetti della scienza o della stessa matematica, effettivamente esistano di per sé.

(1) E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, EST 1997 (1958), p. 106.

domenica 4 febbraio 2007

Crisi della scienza / 7

Un passo ulteriore, nel processo di allontanamento della natura dall'uomo, è rappresentato dalla differenziazione fra il mondo degli oggetti, che diventa, come abbiamo già sottolineato, un mondo essente in-sé, e il mondo della psiche.
La realtà del mondo, nell'interpretazione idealizzata ed astratta che ne dà la nuova scienza, diventa del tutto autonoma rispetto al soggetto che conosce.
Nasce, così, il cosiddetto dualismo che viene portato alle estreme conseguenze da Cartesio.

Una conseguenza di tale dualismo, tuttavia, è che si iniziano a porre domande, mai poste prima in modo così radicale, sul rapporto che c'è fra la conoscenza scientifica oggettivata e il soggetto conoscente.
Alla visione oggettiva che suppone a priori l'esistenza della realtà, si oppone una riflessione, che talvolta confina con lo scetticismo, e che pone il soggetto alla base di qualunque conoscenza del mondo.

La caratteristica dell'obiettivismo è quella di muoversi sul terreno del mondo già dato come ovvio nell'esperienza e di perseguirne la "verità obiettiva", ciò che in esso è incondizionatamente valido per ogni essere razionale, ciò che esso in se stesso è.
[...]
Il trascendentalismo afferma invece: il senso d'essere del mondo-della-vita già dato è una formazione soggettiva, è un'operazione della vita esperiente, pre-scientifica. In essa si costruisce il senso e la validità d'essere del mondo, di quel mondo che vale realmente per colui che realmente esperisce. Per quanto riguarda il mondo "obiettivamente vero", quello della scienza, esso è una formazione di grado più alto fondata sull'esperienza e sul pensiero pre-scientifico, cioè sulle sue operazioni di validità. Soltanto un'operazione radicale che risalga alla soggettività, e cioè alla soggettività che in definitiva produce, nei modi scientifici come in quelli pre-scientifici, tutte le validità del mondo e i loro contenuti, e al che cosa e al come delle attuazioni razionali, può rendere comprensibile la verità obiettiva
e raggiungere il senso d'essere ultimo del mondo (1).
(1) E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, EST 1997 (1958), pp. 97-98.

sabato 3 febbraio 2007

Crisi della scienza / 6

Qual è, dunque, il nucleo della crisi della scienza che Husserl individua?
Abbiamo visto come con Galileo al mondo naturale pre-scientifico si sovrappone una natura idealizzata, che si esprime tramite concetti geometrici, ed ancora di più tramite concetti matematici.
Il metodo scientifico, in questo modo, raggiunge una straordinaria capacità di prevedere i fenomeni naturali, ma nello stesso tempo occulta il suo stesso senso.

Infatti, l'idealizzazione e l'astrazione allontanano la scienza dalle sue origini e si perde l'ispirazione iniziale da cui la stessa scienza è nata: quella di condividere con la filosofia la ricerca di una conoscenza razionale del mondo. Il metodo scientifico, che nasce per rendere progressivamente più precise le intuizioni sensoriali dei fenomeni, diventa il mezzo attraverso cui gli enti ideali della geometria o della matematica vengono assunti come reali. Ed in questo modo la scienza si allontana dall'uomo e dalle esperienze originarie dalle quali è nata la sua stessa esigenza di conoscenza.

Nella sfera reale delle sue indagini e delle sue scoperte [lo scienziato] non sa affatto che tutto quanto queste considerazioni dovranno chiarire esige un chiarimento, in vista dell'interesse più alto e determinante per una filosofia, per una scienza in generale: l'interesse ad una conoscenza reale del mondo stesso, della natura stessa. Appunto quest'interesse è andato perduto nella scienza tradizionale, nella scienza divenuta techne, per quanto fosse determinante al momento della sua originaria fondazione (1).
(1) E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, EST 1997 (1958), p. 85.

giovedì 1 febbraio 2007

Crisi della scienza / 5

Galileo sovrappone al mondo delle intuizioni sensibili e della concretezza, una lettura basata sulle caratteristiche dell'esattezza. A partire dalla misura dei rapporti spaziotemporali i fenomeni sono descritti tramite enti geometrici, che a loro volta sono ricondotti a rapporti formali, sintetizzati da formule matematiche.

La geometria viene, così, aritmetizzata, e si realizza un ulteriore allontanamento da ogni realtà intuitiva.

Nel calcolo algebrico, il significato geometrico passa da sé in secondo piano, anzi cade completamente; si calcola, e soltanto alla fine ci si ricorda che i numeri stanno a significare grandezze.
L'efficacia e il fascino che derivano dalla descrizione fisicalista del mondo, portano ad un rischio: pensare che gli strumenti sempre più astratti che si sono sviluppati per leggere, interpretare, ordinare la realtà, coincidano con la realtà stessa, anzi diventino in qualche modo più veri del "mondo intuitivo della vita concretamente reale, nell'ambito del quale la matematica non è che una prassi particolare".
E' inoltre comprensibile come potesse nascere la tentazione di vedere in queste formule e nel loro senso il vero essere della natura stessa (1).
(1) E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, EST 1997 (1958), pp. 72-73.

mercoledì 31 gennaio 2007

Crisi della scienza / 4

Da una parte si trova, dunque, il contatto immediato, intuitivo con gli oggetti; dall'altra - soprattutto con Galileo - si sviluppa una modalità geometrica e matematica di relazione con il mondo naturale.

In questo senso, un contributo essenziale è dato dalla misura. Misurando le dimensioni degli oggetti, questi ultimi sono descritti tramite rapporti oggettivi che si cerca di rendere sempre più precisi ed esatti. L'esattezza, a sua volta, permette la costruzione di un mondo ideale di forme e di relazioni astratte, che si viene a sovrapporre al mondo fondato sull'intuizione e sull'esperienza.

Si afferma, così, il ruolo universale della matematica:

La matematica come regno della conoscenza autentica e obiettiva (e la tecnica sotto la sua guida), ciò costituiva per Galileo e anche per i suoi predecessori il punto focale dell'interesse proprio dell'uomo "moderno" per la conoscenza filosofica del mondo e per una prassi razionale.
Nello stesso tempo bisogna riconoscere che se per Galileo il ruolo fondamentale della matematica per la descrizione della natura era ormai scontato, non lo era ancora una descrizione della realtà fisica basata su elementi puramente astratti:
Ciò che noi esperiamo nelle cose stesse, nella vita pre-scientifica, i colori, i suoni, il calore, il peso, ciò che esperiamo causalmente, l'irradiazione calorica di un corpo che riscalda i corpi circostanti, e simili, è naturalmente costituito, da un punto di vista "fisicalistico", da vibrazioni sonore, da vibrazioni caloriche, cioè da puri eventi del mondo delle forme. Questa asserzione universale viene assunta oggi come un'ovvietà indiscutibile. Ma per Galileo, per il creatore di quella concezione che rese possibile la fisica, non poteva essere ovvio ciò che sarebbe diventato ovvio soltanto attraverso la sua opera. Ovvia per lui era soltanto la matematica pura e il modo usuale in cui veniva applicata (1).
La visione fisicalista del mondo, oggi considerata quella che maggiormente sembra cogliere la realtà delle cose, ha dunque una precisa origine culturale e storica.

(1) E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, EST 1997 (1958), pp. 67, 65.

lunedì 29 gennaio 2007

Crisi della scienza / 3

Nel mondo circostante intuitivo, nella considerazione astrattiva delle forme spazio-temporali, noi esperiamo innanzitutto "corpi" - non i corpi geometrico-ideali, bensì quei corpi che noi realmente esperiamo, provvisti di quel contenuto che è il reale contenuto dell'esperienza.
Qui è descritta l'esperienza del nostro contatto con gli oggetti che popolano la realtà: oggetti che continuamente percepiamo e con i quali ci relazioniamo.
A partire da queste esperienze primitive si è sviluppato un processo di progressiva astrazione verso le forme pure, ideali, che rappresentano gli elementi di base della geometria.

Alcune forme, come ad esempio le rette, i triangoli, i cerchi, sono privilegiate; poiché a partire da esse si possono costruire sistematicamente tutte le forme pensabili.
Tramite il processo di misurazione si mette in relazione l'oggetto empiricamente esperito con il mondo delle forme ideali, e in questo modo è possibile descriverlo intersoggettivamente facendo uso delle categorie generali ed ideali della geometria.

E' ciò che facciamo ormai spontaneamente, quando diciamo, ad esempio, che quel foglio ha una forma rettangolare o quell'aiuola una forma circolare.
Tuttavia, quel che spesso sfugge è che
tutta questa matematica pura ha a che fare con i corpi e col mondo corporeo in una mera astrazione, cioè soltanto con le forme astratte nella spazio-temporalità e, oltretutto, soltanto in quanto esse sono forme-limite puramente "ideali". Ma concretamente le forme empiriche reali o possibili ci sono date, dapprima, nell'intuizione empirica sensibile, soltanto come "forme" di una "materia", di un plenum sensibile; cioè con ciò che si rappresenta nelle cosiddette qualità specifiche di senso, colore, suono, odore e simili, e secondo peculiari gradualità (1).
(1) E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, EST 1997 (1958), pp. 54, 59.

venerdì 26 gennaio 2007

Crisi della scienza / 2

Durante il Rinascimento avviene in Europa un mutamento culturale rivoluzionario, grazie al quale la ragione, e in particolare la ragione che si esprime tramite la filosofia, diviene lo strumento tramite cui l'uomo moderno può ripensare se stesso e l'intero mondo circostante, alla luce di una conoscenza e di un'etica, che aspirano ad essere considerate universali e sovra-temporali.

La filosofia ha il ruolo di una scienza onnicomprensiva, e rappresenta l'ambito di senso all'interno del quale possono svilupparsi le diverse discipline teoretiche.
Il progetto, tuttavia, non si realizza, poiché il metodo riesce ad applicarsi solamente alle scienze positive, che ottengono indubbi successi, mentre l'ambito della metafisica, dove sono rappresentati i problemi più specificamente filosofici, si sviluppa lungo diverse direzioni che non trovano un accordo, ma che, al contrario, si rivelano ostili fra di loro.

L'ideale, quindi, di una filosofia universale basata sulla ragione si dissolve, e senza voler mettere in secondo piano gli straordinari progressi ottenuti dalla scienza moderna, tuttavia non si può dimenticare che quest'ultima nasce all'interno di questo progetto filosofico, e la crisi della filosofia rappresenta una crisi anche per la stessa scienza:

ciò significa che tutte le scienze moderne finiscono col venire a trovarsi in una crisi di tipo particolare e sentita come enigmatica, che investe il senso in cui sono state fondate, quel senso che esse continuano a recare in sé in quanto rami della filosofia. Si tratta di una crisi che non investe i successi teoretici e pratici della specializzazione professionale, ma che tuttavia scuote da cima a fondo il senso della loro verità.

[...] Perciò la crisi della filosofia equivale a una crisi di tutte le scienze moderne in quanto diramazioni dell'universalità filosofica; essa diventa una crisi, dapprima latente e poi sempre più chiaramente evidente, dell'umanità europea, del significato complessivo della sua vita culturale, della sua complessiva "esistenza" (1).
(1) E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, EST 1997 (1958), p. 41.

giovedì 25 gennaio 2007

Crisi della scienza / 1

L'Europa della seconda metà del XIX secolo è dominata dalla fiducia positivistica nella scienza; è universalmente diffusa la convinzione che solo tramite il metodo scientifico l'uomo può raggiungere una conoscenza certa del mondo.
Inoltre le conquiste tecnologiche, legate al progresso scientifico, evocano un futuro di benessere e di prosperità.
Tuttavia nel 1935, facendo riferimento alla prima guerra mondiale, Edmund Husserl scrive:

Adottiamo come punto di partenza il rivolgimento, avvenuto allo scadere del secolo scorso, nella valutazione generale delle scienze. Esso non investe la loro scientificità bensì ciò che esse, le scienze in generale, hanno significato e possono significare per l'esistenza umana. L'esclusività con cui, nella seconda metà del XIX secolo, la visione del mondo complessiva dell'uomo moderno accettò di venire determinata dalle scienze positive e con cui si lasciò abbagliare dalla "prosperity" che ne derivava, significò un allontanamento da quei problemi che sono decisivi per un'umanità autentica. Le mere scienze di fatti creano uomini di fatto. Il rivolgimento dell'atteggiamento generale del pubblico fu inevitabile, specialmente dopo la guerra, e sappiamo che nella più recente generazione esso si è trasformato addirittura in uno stato d'animo ostile. Nella miseria della nostra vita - si sente dire - questa scienza non niente da dirci. Essa esclude di principio proprio quei problemi che sono i più scottanti per l'uomo, il quale, nei nostri tempi tormentati, si sente in balia del destino; i problemi del senso o del non-senso dell'esistenza umana nel suo complesso (1).
Quando gli uomini si trovano a vivere in un periodo di crisi, a contatto con la sofferenza e l'incertezza della guerra, allora anche le domande cambiano; e si mostrano i limiti dell'impresa scientifica.

(1) E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, EST 1997 (1958), p. 35.

mercoledì 24 gennaio 2007

Descrizioni microscopiche / 5

E' interessante, a questo punto evidenziare un parallelo fra la microfisica (descritta dalla meccanica quantistica) e le scienze cognitive.
In tutti due gli ambiti emerge una forma di complementarietà:

I fenomeni microfisici sono strettamente connessi agli strumenti che li possono "rivelare"; e l'esperienza consapevole è strettamente connessa agli esseri consapevoli. Una separazione in tutti e due i casi è impossibile o comunque artificiosa (1).
La microfisica ci mostra l'impossibilità di descrivere un oggetto microscopico indipendentemente dalla misura che si può avere di esso. Analogamente le scienze cognitive evidenziano la coimplicazione fra osservatore ed ambiente, dalla quale nasce la cognizione, e indipendentemente dalla quale non è possibile descrivere un oggetto (vedi Conoscenza del mondo /1 e seguenti).

Il modo di ragionare tradizionale implica il dualismo soggetto-oggetto, nel senso che si pensa che esistano due entità distinte ed indipendenti come un soggetto ed un oggetto; tale dualismo può essere espresso anche come contrasto fra l'esperienza vissuta in prima persona rispetto ad una descrizione oggettiva in terza persona. Nell'ambito della fisica un analogo dualismo è espresso come contrasto fra una descrizione spaziotemporale probabilistica e una descrizione deterministica astratta (vedi Descrizioni microscopiche / 4).

Una possibilità di leggere questo dualismo non solamente come un contrasto da superare, è quella di riconoscerlo come ambito in cui emerge una descrizione complementare del reale, nel senso che la complementarietà permette di andare oltre una descrizione rappresentativa. Infatti, se non è possibile descrivere un fenomeno tramite una descrizione univoca e completa, non è neanche possibile ridurre il fenomeno ad una rappresentazione; ma se manca una rappresentazione univoca di un fenomeno, non lo si potrà oggettivare.
Michel Bitbol propone, in questo senso, un parallelismo pragmatico:
adottare il parallelismo è equivalente ad accettare che si possano dare due resoconti paralleli, distinti ed autosufficienti ogni qualvolta si è coinvolti in qualche processo partecipativo. Aggiungendo che questo parallelismo è solo "pragmatico" significa che si rinuncia fin dal principio ad una versione metafisica del parallelismo. Qui, i due resoconti paralleli non indicano due insiemi di proprietà o aspetti di una singola sostanza. [...]
La loro unità non è dovuta al loro puntare verso un comune oggetto trascendente, ma piuttosto al loro provenire (da due direzioni diverse) da uno sfondo comune ed immanente, che si potrebbe chiamare "Lebenswelt", facendo riferimento ad Husserl. Il fatto che ambedue i resoconti siano necessari, non rivela una dualità di aspetti di qualche supposto oggetto trascendente; ma piuttosto in questo modo si punta verso il limite dell'oggettività, cioè verso il riconoscimento che il mettersi da parte e sforzarsi di ricercare un'invarianza, non può esaurire tutti gli aspetti della vita all'interno di un flusso immanente (1).
(1) M. Bitbol, Science as if situation mattered, Phenomenology and the Cognitive Sciences, 1, 181-224, 2002. Qui trovi l'articolo completo.

lunedì 22 gennaio 2007

Descrizioni microscopiche / 4

La complementarità di Bohr fra onde e particelle può essere interpretata in modo più generale.

L'onda associata ad un elettrone non è un'onda che si propaga nello spaziotempo; essa rappresenta la soluzione di un'equazione - l'equazione di Schrödinger - e si propaga in uno spazio matematico astratto. Il comportamento di questa onda è deterministico e causale: la conoscenza dell'onda in un determinato istante permette di prevedere come e dove essa si propagherà.
Il suo presente determina il suo futuro, così come il suo passato ha determinato il suo presente.

Se tramite un'interazione si prova a misurare la posizione dell'elettrone-onda, allora si trova l'elettrone-particella, cioè l'elettrone che si comporta da particella.
La misura permette di rivelare l'elettrone nello spaziotempo, e nello spaziotempo l'elettrone si rivela come particella, non come onda. Finché l'elettrone non è misurato esso si comporta come un'onda, un'onda astratta; quando lo si misura allora l'elettrone si mostra come un oggetto nello spaziotempo fisico.

La relazione fra comportamento ondulatorio e comportamento corpuscolare, è che l'onda permette di calcolare in ogni istante la probabilità di trovare l'elettrone in una certa posizione.
Così ci si trova nella situazione di poter prevedere in ogni dettaglio il comportamento dell'elettrone-onda, che però non vive nello spaziotempo; e quando si cerca di misurare nello spaziotempo una proprietà dell'elettrone, lo si trova come elettrone-particella, e si può solo prevedere la probabilità di trovarlo in un determinato punto dello spazio.

Bisogna scegliere: o si opta per una descrizione causale dell'elettrone, che tuttavia non avviene nello spaziotempo, oppure si preferisce una misura nello spaziotempo, ma si perde la causalità e ci si deve accontentare di una previsione probabilistica.

E' proprio la natura della teoria quantistica che ci obbliga a considerare la coordinazione spaziotemporale e la richiesta di causalità, come caratteristiche descrittive che sono fra loro complementari ma esclusive (1).
Ecco, quindi, che torniamo alla complementarità: dietro le descrizioni ondulatoria e corpuscolare, si nasconde la complementarità fra causalità e spaziotempo.
Mentre nella fisica classica si poteva descrivere un oggetto nello spaziotempo in modo causale, nella microfisica si deve scegliere fra una descrizione causale ma astratta, ed una descrizione che avviene nello spaziotempo ma che può essere solo probabilistica.

(1) N. Bohr, The Quantum Postulate and the Recent Development of Atomic Theory, 1934, in J.A. Wheeler and W.H. Zurek, Quantum Theory and Measurement, Princeton University Press 1983, p. 89.

sabato 20 gennaio 2007

Descrizioni microscopiche / 3

Due aspetti, quindi, risaltano nella descrizione del mondo microfisico:
- la conoscenza del sistema che si analizza è inestricabilmente connessa con l'apparato sperimentale che si utilizza per studiarlo;
- poiché su un sistema si possono effettuare misure fra loro molto diverse, non esiste un unico punto di vista per studiare un sistema microscopico; ne segue che la conoscenza completa del sistema si ha solo se si mettono insieme punti di vista incompatibili e complementari (si veda come esempio l'ambiguo comportamento ondulatorio-corpuscolare dell'elettrone).

Sottolineiamo - e ciò è veramente essenziale - che quando si parla di punti di vista, non si intendono visioni parziali o interpretazioni differenti di uno stesso oggetto in sé ben definito. Ciò che possiamo dire sul nostro microsistema, infatti, deve passare attraverso un punto di vista, ovvero attraverso una misura ben determinata. Se pensiamo al sistema indipendentemente da un punto di vista, non possiamo dire nulla. Infatti quando per descrivere un sistema microscopico misuriamo alcune grandezze fisiche che lo caratterizzano, ci troviamo all'interno di un punto di vista.

In altre parole bisogna evitare in ogni modo di pensare ad una realtà microscopica in sé, indipendente dall'osservazione che si può avere di essa; infatti nulla giustifica la possibilità di immaginarla:

[...] i fenomeni sono indissolubilmente codefiniti con gli esperimenti che sono utilizzati per renderli manifesti. Il "soggetto" materiale della microfisica sperimentale (cioè l'apparato di misura) non può essere separato dal sistema che esso analizza. In altre parole, il "soggetto" materiale appartiene al sistema che esso stesso analizza (1).
M. Bitbol, Science as if situation mattered, Phenomenology and the Cognitive Sciences, 1, 181-224, 2002. Qui trovi l'articolo completo.

venerdì 19 gennaio 2007

Descrizioni microscopiche / 2

Poniamo la nostra attenzione su un elettrone. Cos'è un elettrone? Come possiamo descriverlo?
Non possiamo pensarlo come una particella, poiché talvolta si comporta come un'onda; né lo possiamo pensare come un'onda, poiché talvolta si comporta come una particella.

Inoltre non possiamo neanche pensarlo come onda e particella allo stesso tempo, poiché un'onda ed una particella hanno comportamenti incompatibili: se due onde si incontrano, esse si sovrappongono ed ognuna poi continua il proprio percorso; se due particelle si incontrano avviene un urto, e le loro traiettorie si modificano.
Infine non possiamo neanche dire che un elettrone non è nulla, poiché se ne possono misurare le sue proprietà.

La situazione appare paradossale, sembra che il linguaggio non sia in grado di descrivere un evento microscopico.

A questo punto Bohr evidenzia come il diverso comportamento di un elettrone - o più in generale di un qualsiasi sistema fisico di dimensioni atomiche - dipende dal contesto sperimentale, cioè dal tipo di misure che sul sistema vengono compiute.
La conseguenza di ciò è che per conoscere in modo completo un sistema avrò bisogno di analizzarlo in diverse situazioni, ottenendo risultati che saranno incompatibili fra loro. E solo l'insieme di queste descrizioni incompatibili ma complementari permetteranno una descrizione completa del sistema.

Ad esempio, solo lo studio del comportamento corpuscolare e del comportamento ondulatorio di un elettrone permetterà una comprensione completa dell'elettrone. E l'elettrone, così, non sarà mai riducibile ad un'unica immagine, poiché l'immagine che si può avere di un elettrone non è indipendente dalle misure che saranno realizzate sull'elettrone stesso. Misure incompatibili daranno immagini incompatibili; ma queste saranno necessarie per ricostruire una descrizione completa e complessa dell'elettrone.
Questo è il cosiddetto principio di complementarietà.

Bohr, quindi, riconosce

l'impossibilità di una netta separazione fra il comportamento degli oggetti atomici e la loro interazione con gli strumenti misuratori che servono a definire le condizioni nelle quali il fenomeno si manifesta.
[...] i dati ottenuti in condizioni sperimentali diverse non si possono racchiudere in una singola immagine, ma debbono essere considerati complementari, nel senso che solo la totalità dei fenomeni esaurisce la possibilità d'informazione sugli oggetti (1).
(1) N. Bohr, Discussione con Einstein sui problemi epistemologici della fisica atomica, in A. Einstein, Autobiografia scientifica, Boringhieri 1979 (1949), pp. 113-114.

giovedì 18 gennaio 2007

Descrizioni microscopiche / 1


Alla fine del XIX secolo la descrizione fisica della natura è dominata da due modelli: quello corpuscolare e quello ondulatorio.
Tutti gli oggetti dotati di massa, come anche i corpi celesti, sono descritti come punti materiali, che percorrono traiettorie, occupano una posizione ben precisa nello spazio, e quando si incontrano si urtano.
Nel 1897 J.J. Thompson scopre l'elettrone, ed il mondo microscopico inizia ad essere descritto da particelle che si comportano in modo analogo ai corpi materiali macroscopici.

La luce, invece, non è dotata di massa; è considerata una forma di radiazione, ed è descritta da onde che si propagano nello spazio. Le onde si comportano in modo molto diverso dalle particelle: esse tendono ad espandersi nello spazio e quando si incontrano si sovrappongono; la perturbazione generata da un'onda, cioè, si somma alla perturbazione dell'altra onda, in modo che in alcun zone l'ampiezza dell'onda aumenta, mentre in altre si annulla (vedi figura). Quest'ultima importante proprietà caratteristica delle onde si chiama interferenza.

Nel 1905 Einstein ipotizza che in determinate situazioni la luce interagisca in forma corpuscolare tramite quanti discreti chiamati fotoni. Nel 1924 De Broglie propone che gli elettroni, come tutte le particelle massive, in analogia con la luce, abbiano anche un comportameto ondulatorio.
Ben presto queste ipotesi sono confermate sperimentalmente: sia la radiazione che la materia sembrano avere una doppia natura; in determinati contesti esse si comportano come particelle, in altri come onde. Questa è la dualità onda-corpuscolo.

Cos'è, dunque, la luce? Cos'è un elettrone?
Sembra che i modelli tradizionali della fisica classica siano diventati inadeguati. Gli oggetti microscopici sfuggono ad una descrizione non ambigua che utilizza il linguaggio della fisica classica. Tuttavia Bohr sostiene che

per quanto i fenomeni possano trascendere le possibilità esplicative della fisica classica, l'esposizione d'ogni esperiemnto va fatta in termini classici. Ciò significa semplicemente che, con la parola "esperimento", ci riferiamo a una situazione in cui possiamo dirci l'un l'altro ciò che abbiamo fatto e ciò che abbiamo imparato, e che perciò la descrizione di un dispositivo sperimentale e dei risultati dell'osservazione va fatta in termini non ambigui, con l'opportuna applicazione della terminologia della fisica classica (1).
(1) N. Bohr, Discussione con Einstein sui problemi epistemologici della fisica atomica, in A. Einstein, Autobiografia scientifica, Boringhieri 1979 (1949), p. 113.

martedì 16 gennaio 2007

Conoscenza del mondo / 6

L'approccio enattivo, dunque, non presuppone un mondo preesistente all'osservatore; il mondo nasce da una coimplicazione fra osservatore ed ambiente.
Ciò che conta nell'osservatore è la sua struttura sensomotoria, tramite la quale egli interagisce con l'ambiente e ne seleziona le informazioni, che permettono di creare una descrizione del mondo.
Neanche la struttura sensomotoria dell'osservatore, d'altra parte, deve essere considerata a priori, poiché essa si sviluppa e si seleziona tramite la sua interazione con l'ambiente.

L'idea di conoscenza che emerge dall'approccio enattivo è molto diversa dall'idea razionalista secondo la quale conoscere significa essere in grado di rappresentare, di descrivere tramite concetti astratti, di inserire in una teoria.
L'enazione, invece, scopre il ruolo cognitivo del corpo e dell'azione. La conoscenza diventa un processo non più riducibile a solo pensiero, e che probabilmente può essere meglio descritto come esperienza.

E tramite l'esperienza si può riscoprire il ruolo della sensazione, dell'intuizione, del sentimento; elementi che diventano del tutto secondari in un approccio cognitivo che nega il corpo e dà valore unicamente alla razionalità pensante, o addirittura computante.
Come ha precisato Giuseppe Longo:

Uno dei pregiudizi più radicati della nostra civiltà, che si può far risalire ai Greci ma che si è accentuato nell'età moderna, è quello secondo cui conoscere qualcosa o saper fare qualcosa equivarrebbe ad averne una teoria, cioè una descrizione analitica, rigorosa ed esauriente, magari squadernata sotto forma di regole o algoritmi. Questo pregiudizio è strettamente intrecciato con un altro, secondo il quale l'intelligenza che dimostra un teorema matematico sarebbe superiore a quella che ci fa distinguere il volto di un amico da quello di un nemico o che ci fa attraversare una strada piena di traffico. In realtà tutti noi ci comportiamo in modo intelligente nel mondo pur non avendone una teoria e l'intelligenza astratta della mente non potrebbe esistere se non ci fosse l'altra, robusta ed implicita, incarnata nella struttura e nelle funzioni del corpo e nella sua prontezza all'azione (1).
(1) G. Longo, Mente e tecnologia, 2004, p. 6. Qui trovi l'articolo completo.

domenica 14 gennaio 2007

Conoscenza del mondo / 5

Un altro aspetto interessante dell'approccio enattivo è rappresentato dal ruolo significativo assunto dal corpo nei processi cognitivi. In questo senso Varela parla di azione incarnata:

Usando il termine incarnata intendiamo mettere in risalto due idee: in primo luogo, il fatto che la cognizione dipende dal tipo di esperienza derivante dal possedere un corpo con diverse capacità sensomotorie, e in secondo luogo, il fatto che tali capacità sensomotorie individuali sono esse stesse incluse in un contesto biologico, psicologico e culturale più ampio. Usando il termine azione intendiamo porre l'accento ancora una volta sul fatto che, nella cognizione vissuta, i processi sensori e motori, la percezione e l'azione sono fondamentalmente inscindibili (1).
Ritroviamo, quindi, ancora uno schema circolare: la cognizione è connessa alle possibilità che il corpo ha di agire nell'ambiente e di percepirlo; d'altra parte il corpo è influenzato dal contesto biologico di cui fa parte (si pensi all'evoluzione), e i processi cognitivi sono dipendenti dall'ambiente psicologico e culturale nel quale l'individuo si trova.

Uno schema circolare di questo tipo esprime una relazione di coimplicazione fra più elementi, e da esso segue l'impossibilità di poter pensare ad un ambiente indipendentemente da un osservatore, così come non è possibile pensare ad un osservatore indipententemente da un ambiente.
Ad esempio, se osservo una bottiglia, la percezione della bottiglia è il risultato di un processo cognitivo che ha selezionato determinate informazioni dall'ambiente in modo da creare l'immagine di quella bottiglia. Ma nello stesso tempo, gli elementi sensomotori che mi hanno permesso di osservare quella bottiglia sono il risultato di continue interazioni fra l'organismo percepiente e lo stesso ambiente che sto osservando.

In sintesi, viene a cadere l'idea di organismo o di ambiente come oggetti, esistenti nel mondo come enti autonomi.

(1) F.J. Varela, E. Thompson e E. Rosch, La via di mezzo della conoscenza, Feltrinelli 1992 (1991), p. 206.

sabato 13 gennaio 2007

Conoscenza del mondo / 4

Per quanto riguarda la spiegazione di come possano emergere le strutture cognitive di un'organismo nell'ambito del processo di enazione, Varela fa riferimento agli studi di Piaget.
Piaget vuole capire come si evolve l'intelligenza sensomotoria del bambino in modo che si dia luogo alla concezione di un mondo esterno, dove siano situati oggetti permanenti. Il neonato ha a disposizione solamente la sua capacità di agire per ricostruire tutto un mondo, con le sue leggi e la sua logica.
Quando il bambino trova delle coordinazioni fra percezione ed azione, si creano degli schemi di azione stabili, che sono interiorizzati dal bambino stesso, il quale, in questo modo, spontaneamente si adatta all'ambiente nel quale si trova. La ripetizione di questi schemi di azione permette l'emergere delle strutture cognitive del bambino.
L'ambiente, quindi, influenza la creazione di schemi sensomotori ricorrenti; ma sono le conseguenti strutture cognitive che permettono al bambino di definire una concezione dello stesso ambiente e di sé, come oggetto fra altri oggetti.

Hanno origine, così, anche i concetti, le categorie:

Il livello fondamentale di categorizzazione, perciò, sembra essere il punto nel quale cognizione e ambiente vengono simultaneamente prodotti. Al percettore sembra che l'oggetto permetta certi tipi di interazione, ed egli usa gli oggetti con il suo corpo e la sua mente nella maniera consentita (1).
(1) F.J. Varela, E. Thompson e E. Rosch, La via di mezzo della conoscenza, Feltrinelli 1992 (1991), p. 210.

venerdì 12 gennaio 2007

Conoscenza del mondo / 3

Secondo Merleau-Ponty, quindi, l'immagine della realtà è costruita da una coordinazione senso-motoria fra l'ambiente e l'osservatore dell'ambiente. Ambiente che non va pensato come qualcosa a priori rispetto all'osservatore, poiché lo stesso ambiente si costituisce tramite la relazione con l'organismo che lo osserva.
In questo modo cade completamente l'idea di una realtà predefinita che viene rappresentata tramite la percezione. L'unico modo di concepire una realtà diventa quello di pensarla come prodotta dall'azione cognitiva dell'organismo che a sua volta è regolato dagli eventi ambientali.

Questa interazione reciproca fra ambiente ed organismo, che permette la produzione di un mondo, e che considera la cognizione inseparabile dai processi sensomotori, dalla azione e dalla percezione, viene chiamata da Varela enazione.
Si tratta di punto di vista che non può essere considerato semplicemente una posizione filosofica teorica; infatti esso trova conferme di tipo sperimentale. Ad esempio:

In uno studio classico, Held e Hein allevarono dei gattini al buio e li esposero alla luce solo in condizioni controllate. Ad un primo gruppo di animali fu consentito di muoversi qua e là normalmente, ma ciascuno di essi era attaccato a un carrello e a un cestino che conteneva un animale del secondo gruppo. I due gruppi pertanto condividevano la stessa esperienza visiva, ma il secondo gruppo era completamente passivo. Quando gli animali furono liberati dopo qualche settimana di questo trattamento, i gattini del primo gruppo si comportarono normalmente, ma quelli che erano stati portati qua e là dagli altri si comportarono come se fossero stati ciechi: urtavano contro gli oggetti e cadevano dai bordi delle superfici usate per farli camminare. Questo studio brillante avvalora la concezione enattiva secondo la quale gli oggetti non vengono visti tramite l'estrazione di caratteristiche da parte del sistema visivo, ma piuttosto attraverso la guida visiva dell'azione (1).
(1) F.J. Varela, E. Thompson e E. Rosch, La via di mezzo della conoscenza, Feltrinelli 1992 (1991), pp. 207-208.

mercoledì 10 gennaio 2007

Conoscenza del mondo / 2

Quando osserviamo un oggetto, come per esempio una bottiglia, in genere siamo convinti che esista l'oggetto bottiglia, e che i nostri sensi ne ricostruiscono un'immagine più o meno fedele.
In questo senso la conoscenza del mondo è intesa come la rappresentazione di una realtà che si trova di fronte a noi.
In verità non abbiamo nessuna prova diretta che effettivamente esista, indipendentemente dalla nostra conoscenza di esso, un oggetto come una bottiglia; tuttavia, pensare che la bottiglia che vediamo di fronte a noi esista oggettivamente è rassicurante, e ci permette di spiegare la regolarità con cui la ritroviamo sul tavolo se torniamo ad osservarla.
Inoltre sembra che l'unica alternativa alla posizione oggettivista, o della gallina, sia quella soggettivista, o dell'uovo, secondo la quale il mondo non esiste ed è solo una nostra proiezione; ma questa seconda posizione ci appare decisamente meno convincente della prima.

Possiamo immaginare, tuttavia, una terza possibilità, intermedia alle due che abbiamo citato, nella quale la percezione non corrisponde alla rappresentazione di un mondo prestabilito, ma nasce da una coordinazione fra struttura cognitiva e capacità di azione dell'organismo che percepisce.
In questo modo l'organismo genera l'ambiente e al tempo stesso ne è forgiato.
Usando le parole di Merleau-Ponty:

Poiché tutti i movimenti dell'organismo sono sempre condizionati da influenze esterne, è sempre possibile, se si vuole, presentare il comportamento come un effetto dell'ambiente. Ma allo stesso modo, poiché tutte le sollecitazioni che l'organismo riceve sono state rese a loro volta possibili soltanto dai suoi movimenti precedenti, che hanno finito per esporre l'organo recettore alle influenze esterne, si potrebbe dire con altrettanti buoni motivi che il comportamento è la causa prima di tutte le sollecitazioni (stimoli). La forma dell'eccitante, dunque, è creata dall'organismo stesso, dal suo modo particolare di offrirsi alle azioni dell'ambiente esterno. Certamente l'organismo per poter sussistere, deve incontrare intorno a sé un certo numero di agenti fisici e chimici; ma è proprio l'organismo secondo la natura dei propri recettori, secondo le soglie dei suoi centri nervosi, secondo i movimenti degli organi, che trasceglie nel mondo fisico gli stimoli ai quali sarà sensibile (1).
(1) M. Merleau-Ponty, La struttura del comportamento, Bompiani 1963, pp. 35-36.

martedì 9 gennaio 2007

Conoscenza del mondo / 1

Alla domanda "Viene prima il mondo o l'immagine?", possono essere date due risposte antitetiche, che possiamo molto schematicamente sintetizzare in questo modo: la prima è quella oggettivista o realista, secondo la quale osserviamo solo ciò che esiste di per sé; la seconda è quella soggettivista o idealista, secondo la quale il mondo è un'immagine creata dalla nostra mente.
Ecco le due posizioni riassunte da Varela:

Atteggiamento della gallina: Il mondo là fuori ha delle proprietà prestabilite. Esse esistono prima dell'immagine inviata al sistema cognitivo, che ha il compito di ricostruirle in modo approssimato [...].
Atteggiamento dell'uovo: Il sistema cognitivo proietta il suo proprio mondo, e la realtà apparente di tale mondo è esclusivamente un riflesso delle leggi interne del sistema (1).
La prima posizione probabilmente ci sembra quella più ragionevole; sicuramente è il punto di vista che più o meno consapevolmente adottiamo nella vita di tutti i giorni.
Vedremo che indicazioni ci danno le scienze cognitive e la riflessione fenomenologica per analizzare tale questione (vedi anche post Percezione del colore / 1 e seguenti).

(1) F.J. Varela, E. Thompson e E. Rosch, La via di mezzo della conoscenza, Feltrinelli 1992 (1991), p. 205.

lunedì 8 gennaio 2007

Un futuro incerto / 3

La speranza positivistica, di una scienza che arrivasse ad un sapere globale e certo, così che i fenomeni si potessero prevedere e si riuscisse a controllare la natura, si è realizzato solo parzialmente.
Il XX secolo è caratterizzato dallo sviluppo dell'incertezza a livello psicologico, e della complessità a livello epistemologico.

L'incertezza nel futuro genera ansia; soprattutto nei giovani, i quali percepiscono di trovarsi di fronte non tanto un futuro colmo di speranze, quanto piuttosto un domani gravido di minacce.
La tecnologia, sempre più complessa, ci permette, con il semplice gesto di premere un bottone, azioni sempre più potenti.

Ora, la nostra società è la prima che, possedendo delle tecniche, ne è anche, al tempo stesso, letteralmente posseduta. Ci limitiamo a premere dei pulsanti, ignorando il più delle volte quali meccanismi vengano innescati. Questa realtà storica produce inevitabilmente una soggettività straniata, un sentimento di esteriorità rispetto al mondo circostante (1).
(Per un approfondimento del tema, vedi anche la differenza fra pensiero calcolante e pensiero meditante, nel post Due modi di pensare / 1 e seguenti).

(1) M. Benasayag e G. Schmit, L'epoca delle passioni tristi, Feltrinelli 2006 (2003), p. 24.

domenica 7 gennaio 2007

Un futuro incerto / 2

In effetti, anche se le tecnoscienze non cessano di progredire, il futuro resta più che mai imprevedibile, e ciò sembra gettare l'umanità di oggi in un'impotenza assoluta. E' come se l'espansione della tecnica non potesse trovare alcun limite, alcuna risonanza in una riflessione capace almeno di orientarla, dato che non la può limitare. Il fatto che tutto ciò che è possibile realizzare tecnicamente lo sia per davvero, con conseguenze non da poco sul piano umano e culturale, lungi dal lasciare indifferenti, costituisce uno dei motivi quotidiani di ansia (anche se la cosa non viene pensata in questi termini).

[...] Il mondo diventa per ognuno, e per i giovani in particolare, davvero incomprensibile. Non stupisce che, all'ombra di tale impotenza, si sviluppi la pratica dei videogiochi in cui ogni giovane, in una sorta di autismo informatico, diventa padrone del mondo in battaglie individuali contro nulla, su un percorso che non conduce da nessuna parte. Se tutto sembra possibile, allora più niente è reale. E' in questa onnipotenza virtuale che le nostre società sembrano abbandonare la sfera del pensiero.

M. Benasayag e G. Schmit, L'epoca delle passioni tristi, Feltrinelli 2006 (2003), p. 23.

venerdì 5 gennaio 2007

Un futuro incerto / 1

Oggi viviamo la crisi dell'ottimismo positivista e della fiducia nel progresso che ha caratterizzato soprattutto il XIX secolo.

La speranza era quella di un sapere globale, capace di spiegare le leggi del reale e della natura per poterli dominare. Libero è colui che domina (la natura, il reale, il proprio corpo, il tempo): questo era il fondamento dello scientismo positivista. Se l'universo è scritto in linguaggio matematico, come affermava Galileo, lo sviluppo dei saperi dovrebbe essere in grado di fornire la traduzione, la scienza dovrebbe essere lo Champollion del reale: dovrebbe cioè poter "leggere" la natura come Champollion decifrava i geroglifici. E' in questo senso che la promessa non si è realizzata: lo sviluppo dei saperi non ci ha installati in un universo di saperi deterministici e onnipotenti, tali da consentirci di dominare la natura e il divenire: al contrario, il XX secolo ha segnato la fine dell'ideale positivista gettando gli uomini nell'incertezza.

Quest'incertezza, peraltro, non significa una sconfitta della ragione: contrariamente al parere di molti contemporanei, che tendono ad imboccare le diverse vie dell'irrazionalismo, l'incertezza che persiste, quell'incognita che vanifica la promessa dello scientismo non è affatto, a nostro parere, sinonimo di fallimento. Al contrario, quell'incertezza consente lo sviluppo di una molteplicità di forme non deterministiche di razionalità. In altre parole, il fatto che il determinismo e lo scientismo siano caduti dal piedistallo non implica affatto il crollo della razionalità, che essi avevano arbitrariamente monopolizzato (1).
(1) M. Benasayag e G. Schmit, L'epoca delle passioni tristi, Feltrinelli 2006 (2003), pp. 21-22.

giovedì 4 gennaio 2007

Etica / 6

Wittgenstein mostra che l'etica non appartiene all'ambito dei fatti e del linguaggio significativo. L'etica, quindi, non può essere trattata scientificamente, nella misura in cui la scienza si occupa di descrivere fatti.
L'etica, intesa come espressione di un valore assoluto, è connessa ad una esperienza; e fra le diverse esperienze che esprimono qualcosa di assoluto, la più significativa è la meraviglia per l'esistenza del mondo.
L'etica, in quanto sorga dal desiderio di dire qualcosa sul significato ultimo della vita, il bene assoluto, l'assoluto valore, non può essere una scienza. Ciò che dice, non aggiunge nulla, in nessun senso, alla nostra conoscenza. Ma è un documento di una tendenza dell'animo umano che io personalmente non posso non rispettare profondamente e che non vorrei davvero mai, a costo della vita, porre in ridicolo (1).
L'etica riguarda, in primo luogo, l'esperienza di meraviglia per il fatto che il mondo esiste (vedi post Definizione), e ciò è del tutto antitetico all'entusiasmo per le ultime scoperte della scienza; un entusiasmo che riguarda uno sviluppo unicamente qualitativo, che Wittgenstein critica duramente (vedi post Scoperte scientifiche).

(1) L. Wittgenstein, Sull'etica, in Lezioni e conversazioni, Adelphi 1995 (1965), p. 18.

mercoledì 3 gennaio 2007

Etica / 5

Le espressioni che esprimono un valore etico non esprimono dei fatti, e per questo si può dire che sono insensate. Tuttavia con esse noi vogliamo esprimere qualcosa:

se certe esperienze ci inducono sempre nella tentazione di attribuire a esse una qualità che chiamiamo valore e importanza assoluti o etici, questo mostra semplicemente come con queste parole noi non intendiamo un nonsenso e che quindi, dopo tutto, dicendo che un'esperienza ha un valore assoluto, intendiamo solo un fatto come un altro, e che tutto equivale a dire di non essere ancora riusciti a trovare la corretta analisi logica di ciò che intendiamo con le nostre espressioni etiche o religiose.

Ora, di fronte a una tale asserzione, io vedo subito chiaro, come in un lampo di luce, non solo che nessuna descrizione pensabile per me sarebbe adatta a descrivere ciò che io intendo per valore assoluto, ma anche che respingerei ogni descrizione significante che chiunque potesse eventualmente suggerire, ab initio, sulla base del suo significato. Cioè, voglio dire: vedo ora come queste espressioni prive di senso erano tali non perché non avessi ancora trovato l'espressione corretta, ma perché la loro mancanza di senso era la loro essenza peculiare. Perché, infatti, con esse io mi proponevo proprio di andare al di là del mondo, ossia al di là del linguaggio significante (1).
(1) L. Wittgenstein, Sull'etica, in Lezioni e conversazioni, Adelphi 1995 (1965), pp. 17-18.

martedì 2 gennaio 2007

Etica / 4

Cosa vuol dire Wittgenstein affermando che si meraviglia per l'esistenza del mondo?

[...] tutti capiamo cosa voglia dire meravigliarsi per le dimensioni di un cane più grosso di qualsiasi cane mai visto, o per qualcosa di straordinario, nell'accezione comune del termine. In tutti questi casi, io mi meraviglio di qualcosa perché è come è, e che potrei concepire come diversa. Mi meraviglio per le dimensioni di questo cane, perché potrei immaginare un cane di dimensioni normali, per esempio, di cui non mi meraviglierei. Dire "Mi meraviglio di questo e di quest'altro", ha senso solo se posso immaginarmi che le cose non stiano così.

[...] Ma non ha senso dire che mi meraviglio per l'esistenza del mondo perché non posso pensarlo come non esistente. Posso certo meravigliarmi che il mondo attorno a me sia così. Se per esempio avessi una tale esperienza mentre guardo il cielo azzurro, potrei meravigliarmi del suo essere azzurro, invece che coperto da nubi. Ma non è questo che voglio dire. Mi sto meravigliando del cielo, comunque esso sia. Si potrebbe essere tentati di dire che mi sto meravigliando di una tautologia, e cioè del cielo azzurro o non azzurro che sia, ma allora non ha senso dire di meravigliarsi di una tautologia (1).
(1) L. Wittgenstein, Sull'etica, in Lezioni e conversazioni, Adelphi 1995 (1965), pp. 13-14.